lunedì 25 novembre 2024

RECENSIONE


Aldo Meccariello

Da decenni saggi e studi di letteratura italiana non sempre si spingono a valorizzare la linea geografica delle patrie lettere peraltro prospettata nel celebre studio, ormai un classico, di Carlo Dionisotti, Geografia e storia della letteratura italiana del 1967, e ripresa da Alberto Asor Rosa nella poderosa opera einaudiana, Letteratura italiana, a partire dagli anni Ottanta. Provare a ridisegnare una geografia della letteratura italiana, che si collochi oltre la matrice storicistica-desanctisiana, può restituire nuova linfa alla nostra identità letteraria e alla sua storia anche perché la geografia è, in un certo senso, una forma della storia cioè un insieme di luoghi mentali, antropologici, culturali e non solo fisici.
Allora, ben venga questo prezioso volume di Andrea Giampietro, Studi di letteratura abruzzese (Edizioni Menabò, 2024), che è un tributo rigoroso e appassionato a scrittori, poeti e critici dell’Abruzzo di fine ’800 e soprattutto del ’900 (D’Annunzio, De Lollis, De Titta, Clemente, Giannangeli, Silone, Rosato, Lelj, Giuliante, Dommarco, Savastano, Marciani etc.), con un’appendice interessante su Pasolini e l’Abruzzo. Già il titolo “Studi” e non “storia”, o “profili” di letteratura abruzzese, imprime alla ricerca di Giampietro un carattere sperimentale, aperto, non innervato in canoni consueti o in stereotipi rigidi. La questione è capire se esiste una letteratura abruzzese o meglio se l’abruzzesità intesa come identità regionale autonoma è capace di armonizzarsi attraverso l’osmosi feconda tra generi, registri espressivi e stili in un’ottica di storia non unitaria della letteratura nazionale.
Il volume si apre su Gabriele D’Annunzio che ambienta ad Anversa degli Abruzzi, presso le Gole del Sagittario, oggi riserva naturale, la sua Fiaccola sotto il moggio, tragedia in versi, composta dal Vate agli inizi del ’900 e inserita in quel filone di «smembramento familiare iniziato nel Trionfo della morte (1891) e poi sviluppato nelle Vergini delle rocce (1896)» (p. 9). Certo, questo inserimento in apertura del volume conferma a pieno titolo, a dire dell’Autore, la vitalità rinnovata del motivo abruzzese nell’opera dannunziana, visto l’inverato amore del poeta per i suoi luoghi natii che sono però sempre trasfigurati, mitici e non realistici. A dire il vero, la collocazione di D’Annunzio nel solco di una linea regionalistica rimane sempre problematica ma non è forse il tempo di sottrarlo alla sua specificità abruzzese?
Andrea Giampietro offre al lettore una galleria variegata e articolata di profili di poeti e scrittori abruzzesi che si sono misurati con la potenza espressiva del dialetto, lingua viva. Fra tutti spicca la figura di Vittorio Clemente, tra i maggiori poeti dialettali abruzzesi, giunto alla ribalta nazionale grazie alla raccolta Acqua de magge (1952) con la prefazione di Pier Paolo Pasolini che lo include nella raccolta della Poesia dialettale del Novecento (1952) e poi oggetto di saggi e studi da parte di autorevoli critici e poeti come Giannangeli, Fortini, Caproni, Petrocchi, Spagnoletti. Trasferitosi a Roma agli inizi degli anni ’40, si dedica agli studi sulla poesia romanesca (Belli, Trilussa, Pascarella, Jandolo, Lombardi, Terenzi) e nel 1970 esce poi la sua opera omnia, esempio mirabile di poesia lirica dialettale.
Giampietro nel suo accurato lavoro registra un risveglio della cultura abruzzese sul fronte degli studi storici, linguistici e letterari, ben distante dalla mera cronaca regionalistica o localistica e si sforza con risultati eccellenti di restituire a ciascun profilo uno spessore nazionale ed europeo. A riprova si lascia guidare lungo i vari saggi dal magistero del critico letterario Ottaviano Giannangeli (1923-2017), a cui dedica diversi capitoli, e in esergo il volume. Poliedrica figura di intellettuale, Giannangeli fu professore universitario, poeta, narratore, saggista e traduttore; s’interessò principalmente a D’Annunzio, Montale, Pascoli e Camerana, nonché ai grandi autori dialettali come Clemente, Postiglione, De Titta e Luciani; studiò il dialetto come lingua del popolo «perché nessuno come lui è riuscito, nel secondo Novecento abruzzese, a rendere cantabile, in una lingua comprensibile al contadino, l’ampio raggio del suo genio poetico» (p. 96). Inoltre, fu fondatore e co-direttore, insieme a Giuseppe Rosato e Giammario Sgattoni, della rivista “Dimensioni” (1957-74) che mirava a riunire le più fervide forze intellettuali della regione al fine di avviare un confronto dialettico con le migliori realtà del panorama culturale nazionale e internazionale.
La sua attività di critico si è realizzata in numerose pubblicazioni antologiche e saggistiche, tra le quali Canti della terra d’Abruzzo e Molise (1958), Poeti dialettali peligni (1959), Umberto Postiglione (1960), Qualcosa del Novecento (1969), Operatori letterari abruzzesi (1969), Pascoli e lo spazio (1975), La bruna armonia di Camerana (1978), Metrica e significato in D’Annunzio e Montale (1988), Parole d’Abruzzo. Otto poeti dialettali della regione (2001), Scrittura e radici. Saggi 1969-2000 (2002). La sua poesia si alza chiara e sicura a celebrare anche l’appartenenza a un territorio, alla sua storia, alla sua comunità. Il lettore è invitato ad approfondire questa tematica in un capitolo denso e teorico, Ad accoppiar parole. “Dialettale” e “popolare” nella poesia di Giannangeli, da cui si evincono le linee guida dell’intero impianto del lavoro di Giampietro che sottolinea come la sua poesia smentisca la presunta incompatibilità tra lingua letteraria e lingua parlata, come il dialettale e il popolare si fondino nel medesimo significato: «la scrittura in dialetto di Giannangeli non è la semplice risoluzione di un’anima nutrita da motti e canti popolari ma la consapevolezza che certe cose, certe inclinazioni dell’animo, certe condizioni del sentire universale, non possano esprimersi che nella lingua nativa» (p. 101). L’abruzzesità non può non rivivere, non può non rigenerarsi di continuo nella lingua materna. Ecco il filo conduttore di questi Studi di letteratura abruzzese che confermano come l’esperienza della poesia dialettale rappresenti una vera e propria seconda tradizione altrettanto alta, altrettanto colta della poesia in lingua italiana.
Anche il capitolo dedicato a Giuseppe Rosato, il poeta di Lanciano, oggi novantaduenne, scava nelle pieghe della sua opera poetica in lingua e in dialetto e riporta alcuni assaggi di esegesi testuale delle sue raccolte poetiche. In libri come La cajola d’ore, Ecche lu fredde, L’ùtema lune, E mò stém’ accuscì, La ’ddòre de la neve e Jurne e jurne, Rosato si affida al dialetto e alle sue componenti fonetiche e morfologiche, rievocando i lati crepuscolari dell’esistenza: «Io qui nel buio, sono tutto, tutto» (p. 133).
Un inserimento sorprendente è quello di Umberto Postiglione (1893-1924), rivoluzionario e anarchico di Raiano che partecipò alle lotte politiche e sindacali negli Stati Uniti e in America del Sud per fare poi ritorno in Abruzzo ove scoprì la sua vocazione di poeta e maestro elementare (a tal proposito è rilevante l’intervento, intitolato L’autoeducazione del maestro, ch’egli tenne al Congresso Magistrale dell’Aquila del 17 Novembre 1923); sarebbe morto a soli trent’anni. A riportare l’attenzione su Postiglione poeta e pedagogo è instancabilmente Giannangeli che accede al suo archivio personale e ne cura un’antologia nel 1960.
Ma veniamo ai nodi più problematici della discussione di natura letteraria e ideologica intorno alla specificità abruzzese che Giampietro illustrata nel capitolo dedicato alla corrispondenza tra Giannangeli e Silone, Fontamara non è in Abruzzo. Giannangeli nel 1957, anno di fondazione della già richiamata rivista, “Dimensioni”, redige una sorta di manifesto invitando intellettuali, studiosi, politici a dare una mano per il rinnovamento della cultura abruzzese in tutte le sue forme: «Non c’è problema che vi impegni a fondo, e che vi ponga davanti alla vostra responsabilità di Abruzzesi, più di quello della cultura. […] Non si dà risveglio, neppure nella sfera economica, industriale e commerciale, che non si configuri nella storia della civiltà, ossia nell’evoluzione integrale dello spirito» (p. 81). All’appello risponde Ignazio Silone che rifiuta non solo l’invito a collaborare ma contesta le linee teoriche della rivista (nata col titolo di “Rivista abruzzese di incontro e di allineamento culturale”, poi mutato in “Rivista abruzzese di cultura e d’arte”) e stigmatizza l’espressione “allineamento culturale” come una frase da “maestro di ginnastica”. L’autore di Fontamara non crede nella specificità della cultura abruzzese: «Non sarebbe più realistico discorrere di partecipazione degli abruzzesi alla cultura occidentale o cristiana o mediterranea, secondo quello che si preferisce?» (pp. 83-84). Giannangeli con determinazione e robustezza intellettuale ribadisce il suo intento di aprire l’Abruzzo a nuove dimensioni, a nuovi ideali di cultura e di civiltà, fiducioso che lo scrittore marsicano ci ripensi. Da questi brevi stralci del carteggio viene fuori l’idea di cosa significhi “letteratura abruzzese”, di cosa significhi guardare all’Abruzzo come specchio emblematico di civiltà e di orgoglio, come potente metafora del mondo per usare un’espressione di Leonardo Sciascia che si riferiva alla sua Sicilia.
Il volume si chiude su Pasolini e l’Abruzzo, dedicato a un rapporto molto stretto iniziato grazie a Vittorio Clemente che aveva aiutato il poeta friulano a trovare un posto di insegnante in una scuola privata di Ciampino agli inizi del 1950 e poi proseguito negli anni a venire con periodici dibattiti a Teramo, fino alla tragica morte di Pasolini nel 1975 all’idroscalo di Ostia.
Questo libro di Andrea Giampietro dovrebbe circolare molto nelle scuole e non solo tra addetti ai lavori o tra lettori specializzati perché offre tanti spunti e stimoli per approfondire la letteratura abruzzese anche nel contesto della cultura nazionale ed europea e ancora di più è una traccia significativa per mettere a punto una storia civile degli intellettuali della terra d’Abruzzo.


Andrea Giampietro, Studi di letteratura abruzzese, Ortona, Edizioni Menabò, 2024, pp. 206, € 15,00.