giovedì 30 novembre 2023

RECENSIONE

 


UN GIALLO CINEMATOGRAFICO

Rosa Elisa Giangoia


   Con L’urlo nella notte Donatella Mascia regala ai suoi lettori, senz’altro ormai molti e appassionati, un nuovo avvincente romanzo che possiamo definire “giallo soft”, in quanto senza eccessivo spargimento di sangue, ma pur tuttavia dotato di una solida struttura narrativa in cui le vicende si sviluppano in una concatenazione logico-consequenziale che l’autrice, grazie anche al supporto scientifico della sua formazione culturale e della sua attività professionale riesce a governare con sapienza e maestria, senza sbavature, senza tempi morti ed evitando trovate troppo fantasiose, al limite del reale possibile.
   L’intreccio e la presentazione dei fatti stabiliscono fin dall’inizio un buon patto con il lettore, che viene attratto e incuriosito, fin dal titolo in cui compaiono due vocaboli tipici della paura l’ “urlo” e la “notte”. La narrazione inizia da un fatto improvviso, inaspettato, capace di suscitare molti interrogativi: quel lacerante “urlo nella notte”, appunto, proveniente da un appartamento in cui vive una donna sola, con l’unica compagnia di un cane. A preoccuparsi per questo urlo è un giovane vicino di casa che accorre e fa ricoverare la donna, ferita gravemente e terrorizzata, in ospedale. Questo inaspettato soccorritore diventa il motore di tutta la vicenda, in quanto la sua curiosità di fronte al drammatico evento, che sembra contrastare con la figura tranquilla e appartata della vicina di casa, lo porta ad iniziare un’indagine meticolosa e serrata nella vita di questa donna.
   Di qui la narrazione si dipana in un montaggio cinematografico, per il susseguirsi di scene diverse in luoghi differenti di un ampio scenario geografico tra l’Italia (Genova e Milano) e la Svizzera (Ginevra), ma anche in una complessità d’intreccio tra due piani temporali, quello della ricostruzione del passato della donna e quello del presente delle indagini. La narrazione assume sempre più la caratteristica di una spy fiction in cui si verificano traffici d’armi in uno scenario di intrighi internazionali di cui sono protagonisti gruppi terroristici in competizione tra di loro.
   Si sviluppa così una vicenda ricca di colpi di scena, piena di suspense che tiene avvinto il lettore per il verificarsi di fughe e di inseguimenti, in un avvicendarsi di personaggi e di vicende sorprendenti.
   A poco a poco le tenebre sulla vita di questa apparentemente insignificante signora Tilde si dipanano ed emerge il suo passato, quello in cui lei era stata una bella e affermata fotografa, di nome Edvige che, durante un soggiorno a Ginevra per un servizio fotografico, aveva casualmente assistito a un omicidio in un lussuoso albergo. Questo fatto aveva sconvolto la sua vita, costringendola a fuggire in quanto inseguita da persone misteriose, a cui può sottrarsi grazie all’aiuto di quello che per lei è sempre il Corsaro, un suo perenne innamorato, capace di molte trovate e di astuti espediente, per l’efficace addestramento conseguito nella Folgore. Nell’intrecciarsi di vicende, sovente anche rocambolesche, entrano in scena politici corrotti, cellule islamiche impazzite, personaggi dei servizi segreti, tutti descritti dall’autrice con sapide punte di ironia.
   Ad animare tutti questi fatti sono i personaggi, sempre tratteggiati con realistica efficacia, anche per l’attenzione ai particolari e per la capacità di ottima costruzione psicologica dell’autrice, personaggi a tutto tondo, talvolta con qualche accentuazione grottesca. Ben delineata soprattutto la protagonista nella sua duplice personalità, prima quella di Edvige, affermata e disinvolta fotografa, capace di muoversi con sicurezza professionale negli ambienti internazionali, poi quella di Tilde, appartata donna che cerca di passare inosservata. Altrettanto ben tratteggiato il giovane vicino di casa Venanzio, suo salvatore, semplice e un po’ scialbo farmacista che si improvvisa detective, rivelando impreviste doti di perspicacia. Tra di loro emerge il cane Lionello che da custode della signora Tilde diventa compagno inseparabile di Venanzio in un dialogo muto, quanto efficace ed espressivo. Animale questo con valenze umane che assume il ruolo di elemento tipico, immancabile, nella narrativa di Donatella Mascia, che in tutti i suoi precedenti romanzi ha dedicato spazio ai cani e ai gatti, rendendoli in alcuni casi veri e propri protagonisti di avvincenti vicende, tanto che potremmo dire che questi animali costituiscono la cifra caratteristica e inconfondibile del suo narrare.
   Infine bisogna evidenziare lo stile narrativo, sobrio, misurato, sempre pienamente funzionale al racconto, preciso ed efficace.

DONATELLA MASCIA, L’urlo nella notte, Genova, Stefano Termanini Editore, 2023, pp. 216, € 18,00.

UNA POESIA

 di Carla Caselgrandi Cendi


Per lo splendore di un cielo stellato

e il rigoglio d'erbe nel prato

se fossi nata in un mondo senza Dio

penso lo avrei inventato io

Sollecitata da un'idea d'amore

oltre il male e il timore

avrei scelto per vivere quaggiù

di camminare al fianco di Gesù


ottobre 2023



sabato 25 novembre 2023

RECENSIONE

 


L’ACQUA E IL FUOCO, LA VITA E LA MORTE

Rosa Elisa Giangoia

     Acqua acqua fuoco, ultima silloge poetica di Laura Accerboni, mette in evidenza nel titolo i due elementi naturali, carichi di contrapposizioni, che sostengono e, nello stesso tempo, possono annientare la vita dell’uomo. L’acqua è, fin dai primordi della riflessione occidentale e il riferimento è ovviamente a Talete, il principio dell’esistere della vita in natura, sia nel mondo vegetale che in quello animale e umano. Ma l’acqua può diventare elemento di morte, può trascinare con la sua forza, sommergere e affogare, mentre il fuoco, che aiuta la vita con il calore, permette la manipolazione dei metalli e arricchisce l’alimentazione con la cottura, può distruggere tutto, incenerendo ogni cosa con le sue fiamme. Acqua e fuoco determinano quindi il cerchio della vita e della morte, in un intreccio ambiguo, insondabile e inesorabile, all’insegna di quella casualità che per l’uomo è mistero. L’imperscrutabile avvicendarsi di vita e di morte, nel susseguirsi di eventi inspiegabili e imprevedibili, determina la percezione dell’assurdo come elemento costitutivo dell’esistere.
    Questa pare essere la percezione esistenziale di Laura Accerboni che si impegna con fantasiosa immaginazione a rifletterla e riprodurla metaforicamente nei suoi testi poetici. I brevi componimenti di questa silloge, senza sentimentalismi e privi di coinvolgimenti emotivi, si susseguono in incalzanti concatenazioni di immagini in antitetiche contrapposizioni, in sequenze fonico-lessicali orientate verso finali a sorpresa e a effetto, con una durezza espressiva finalizzata a evitare ogni caduta in esiti di tradizionale liricità. Viene così tratteggiato un mondo all’insegna dell’assurdo (“Ho fotografato / l’inferno / è sempre a fuoco / perfetto”), senza alcuna illusione, ma anche senza speranze, in cui una forza inarrestabile e incontrollabile, nella metafora dell’acqua, tutto sommerge, in cui è meglio fare ciò che è contrario all’abituale umano comportamento: L’acqua / sta sotto / al letto / se non dormi / arriva / alle lenzuola / e annega / ogni cosa / fino al tetto”. È un mondo in cui può accadere solo l’imprevisto, l’inaspettato: “Mi è uscita / una balena / dalla bocca / ha iniziato / a crescere / nella stanza. / Le ho detto / «Non è un acquario / questo». Ma la balena assume connotati metaforici emblematici, caricati di ascendenze letterarie, per poi volgersi verso raffigurazioni di critica all’attualità: “La balena / è bianca / sbiancata / dalla plastica. / Inseguo / quintali / di bottiglie / da tutta la vita”.
    Ma nel nostro problematico mondo domina anche l’autodistruzione psicologica: “Certi animali / si masticano / fino a sanguinare / non vogliono / che siano altri / a mangiarli / si riducono / a brandelli”, in un interscambio sinestetico di piani, tra l’animalesco e l’umano: “Ci sono scoiattoli / nati/ per essere uomini / lo vedi / da quello / che ingoiano / dalla quantità / di alcol / e dalla pelliccia / che indossano / al bar / come uno scalpo”.
    Da questa fantasmagoria di immagini all’insegna dell’assurdo emergono brandelli di realtà in una sorta di filigrana sfuocata, come avviene per il crollo del ponte Morandi a Genova: “Mentre cade / l’uomo / sistema le ultime / cose / la porta di casa / che si raggruma / nello schianto”, primo testo di una sequenza a cui ne seguono altri sull’argomento di forte incisività per stigmatizzare anche colpevolezze.
    Questi componimenti poetici di Laura Accerboni, apprezzabili per l’originalità di ispirazione a cui corrispondono un’adeguata struttura e un appropriato piano espressivo, si vengono a trovare in sintonia con quello che è il prevalente sentire filosofico del nostro tempo, in quanto indagano, ma soprattutto rappresentano, ciò che è, l’essente, evidenziando il fatto che non tutto sia sempre precisamente calcolabile secondo i principi della scienza naturale. In definitiva, si possono apparentare all’affermazione di Wittgenstein secondo cui il mondo è la totalità dei casi. Ora è chiaro che tra i casi si possono, anzi si debbano, stabilire dei legami, come appunto la scienza fa, ma dobbiamo anche tener presente che oggi la scienza quantistica si basa sul principio di indeterminazione, secondo cui nessuna causa ha in sé tutti i propri effetti, per cui non tutto può essere determinato a priori.
    In questa consapevolezza è chiaro che ogni realtà esistente è qualcosa di intrinsecamente indeterminato, inquieto, qualcosa che non si potrà mai ridurre a una causa, spiegare in modo del tutto deterministico. Per questo anche noi siamo inquieti, sospesi nel possibile, nell’imprevedibile.
    Tutto questo, secondo me, Laura Accerboni ha voluto esprimere e ha saputo farlo, oltre che con originalità, con efficacia.

LAURA ACCERBONI, Acqua acqua fuoco, Torino, Giulio Einaudi Editore, 2020, pp. 124, € 11,50.

venerdì 24 novembre 2023

RECENSIONE

 


TEBE, ARCHETIPO DELLA MODERNITÀ

 Rosa Elisa Giangoia

 

     La nuova recente opera poetica di Donatella Bisutti Erano le ombre degli eroi è un poemetto davvero straordinario per complessità intellettuale e fantasia creativa, in quanto recupera un mito particolare della mitologia classica, quello delle origini, della storia e della caduta della città di Tebe, stabilendo rapporti storico-allusivi tra le tragiche vicende del tempo mitico e specifici avvenimenti della storia recente. Il mito emerge quindi in quella che è la sua caratteristica e dimensione propria di paradigma della vita umana per la particolare capacità che il mondo classico ha avuto, prima con il mito e poi con l’espressione letteraria e filosofica, di rappresentare e di dire tutto quello che, nel bene e nel male, è proprio dell’uomo.
     Il mito, però, per essere rivelatore, deve essere conosciuto a fondo. Per questo Donatella Bisutti correda il suo dire poetico con un ricco e accurato apparato di note in cui le figure e gli eventi mitologici vengono illustrati con riferimenti ai testi degli autori classici che ci hanno permesso di conoscerli e di altri successivi che li hanno approfonditi; si aggiungono, poi, i recuperi di fatti di cronaca, che evidenziano le consonanze con la storia recente.
Tutta la rievocazione della storia di Tebe si articola in scene, sapientemente tratteggiate in modo allusivo, articolandosi in una serie di atti, che danno plasticità al racconto.
La rievocazione della poetessa parte dalle lontane origini della città, da Cadmo che va in cerca della sorella Europa “bellissima / trasportata dal dio sopra i flutti / rapita lontano / nel luogo di un amore proibito e segreto” (p. 13). Di lei si è innamorato Zeus che, per averla, si è trasformato in “bianco toro” e l’ha rapita in quel prato fiorito, sempre insidioso per le fanciulle dei miti greci. Da lei nasce Minosse e ha inizio quella discendenza per cui sorse “una città / di ancora più grandi ignominie: Tebe”, una città che ha nelle sue stesse origini un destino negativo, “città dell’enigma e della guerra” (p. 27).
     Il viaggio di Cadmo prosegue con molti pericoli tra le “onde / azzurro-purpuree mediterranee”, mentre con preveggenza visionaria compaiono “i ventri gonfi degli annegati / nel cercare a nuoto una riva” (p. 15): sono i morti in mare di ieri, di oggi, di sempre, quelli che “si sforzano di intravvedere / le luci lontane di un porto / […] / senza bere né mangiare un ammasso di carne scura / alla deriva” (pp. 15-16). Sono tutti coloro che nella storia, come oggi, fuggono da situazioni di pericolo e di indigenza e cercano di raggiungere condizioni di vita migliori al di là di un mare che troppo spesso, purtroppo, diventa la loro tomba.
     Fin da queste prime vicende ai afferma la particolarità di questa narrazione-rievocazione del mito, intessuta in filigrana delle vicende dell’attualità a sottolineare la persistenza del male nella vita degli uomini, sempre pronto a riapparire in forme e circostanze diverse nella storia, ma sempre apportatore di dolorose sventure.
     Altre “collisioni” tra il mito e il presente avvengono con correlazioni in ambito artistico, così nell’Atto X Iperrealismo – Il Pene in cui “il Maschile di Cadmo” trova la sua piena raffigurazione nell’opera di una donna che la poetessa in nota precisa essere l’ “artista scozzese Gwen Hardie, residente s New York” p. 147): “Lei dipinge il corpo di un uomo / soltanto le natiche e il ventre / solo un pene – solo quello –” (p. 27) che diventa “un pugnale temibile” (p. 27), una “macchina da guerra in riposo” (p. 28).
     Quello di Tebe è un destino di lutti e di sciagure a seguito della maledizione di Pelope, a cui non possono sfuggire Laio, Edipo e Giocasta, nonostante le loro precauzioni e i loro tentativi di modificare il corso degli eventi: anche loro sono come gli uomini e le donne di sempre, di ieri e di oggi: “Giocasta è consapevole di preferire l’abominio / piuttosto che rinunciare al piacere” (p. 34) ed è come una qualunque donna che “si tagliò le vene” con un “coltello d’oro” che “aveva rubato / in una villa sulla spiaggia di Los Angeles / dove rifaceva i letti e lavava i pavimenti” (p. 37).
     Il poema procede in questo sempre ardito gioco di contrappunto tra passato e presente fino alla distruzione di Tebe nel 382 a.C., quando “Già più di due secoli prima / le grandi multinazionali / si erano spartite i latifondi” (p. 81). Tutto avvenne perché “In Beozia da tempo / non pioveva così incessantemente” (ibid.). Ma poi ci fu L’Arcobaleno e “scesero / come da una passerella luminosa / gli dei ridenti di luce / a guardare cos’era successo / al passaggio dell’uragano (p. 82). In seguito Tebe, come succede nelle città del recente passato e di oggi, “mentre tutti ballavamo Chopin / a un ritmo rock / bevendo campari e vodka” (p. 87) “per l’ennesima volta / veniva rasa al suolo / con bombardamenti a tappeto” (ibid.).
     Agli uomini restava solo la Bellezza del Giardino Incantato ma “venne un giorno un gigante” (p. 88) “Egli era la Violenza” (p. 89) che credette di distruggerla ma non vi riuscì. Così poté nascere La Città Nuova in cui Gli Schiavi, “scaricati da vecchi furgoni / […] / come animali portati al macello”, “stanno piegati sui campi / a raccogliere i frutti sacri della terra” (p. 93). Tutto fu diverso in questa nuova Tebe, simbolo delle moderne città del mondo: “venne un tempo / in cui l’acqua cessò di essere sacra. / L’acqua fu usata e sprecata / sporcata e gettata” (p. 97) e “Molti abitanti dei villaggi, / i più poveri, / migrarono attraverso il deserto / inseguendo il miraggio di una fonte (pp. 97-98). Ad imporsi furono Il Comandante e l’Impero che portarono Tebe ad essere “rasa al suolo” (p. 100), ma poi si scoprì L’Oro Nero, “un liquido scuro e vischioso / [che] a volte sgorga e si infiamma” (p. 101). A rovinare la vita degli abitanti di Tebe fu Il Cibo, quando iniziarono a onorare “Adefagìa, dea dell’ingordigia” (p. 103), per cui “mangiavano e ingrassavano / quasi tutti obesi, / quando camminavano / il loro ventre sopravanzava / il loro naso” (p. 105). E ci furono Stragi e dolori di Madri, ma a determinare l’annientamento della città furono I Rifiuti di Tebe che diventavano sempre di più, tanto che “formavano ormai una muraglia / che cingeva Tebe da ogni lato” (p. 117), “Finché un giorno Tebe, divenuta un’enorme discarica, / franò, seppellendo se stessa / nei suoi stessi rifiuti. / E la Terra, / finalmente, / cominciò a essere purificata” (p. 119).
     Ma il poema non si conclude con questa catastrofica visione profetica allusiva della nostra realtà.
     Anche se “Non ci sono più eroi / non c’è più neanche l’uomo” (p. 126), non saranno Gli Scienziati, a salvare il mondo, anche se pensano che “Dio ha fallito clamorosamente” (p. 131), in quanto la prospettiva della poetessa è nel Ritorno degli Dei, che agli uomini appaiono qualcosa di “disgustosamente dolce” (p. 136), ma che piace ai bambini nella loro fantasia aperta al futuro.
     Così si conclude questo poema di Donatella Bisutti, opera di alte e profonde valenze etiche, in cui le tematiche antiche diventano specchio e monito della nostra realtà, condotto con leggerezza e ironia in un susseguirsi di originalità creativa con versi di grande partecipazione emotiva per la consapevole attenzione alle esperienze umane e per l’alta considerazione della poesia, in quanto i poeti devono mirare alla verità, non essere coloro che “si baloccano con le parole” (p. 129).

DONATELLA BISUTTI, Erano le ombre degli eroi, Bagno a Ripoli (FI), Passigli Editore, 2023, pp. 200, € 19,50.



domenica 12 novembre 2023

POESIE

 

IMITANDO VIRGILIO

di 

Andrea Guiati

 

I

 

Una rossa fragola timidamente

trattiene la sua fragranza

sotto la fresca rugiada mattutina.

Una grossa zucchina

coperta da una foglia

pronta ad essere raccolta

sotto la fresca rugiada mattutina.

Rucola e lattuga si contendono lo spazio

accanto al riccio cavolo verde

sotto la fresca rugiada mattutina.

Le tegoline gialle e verdi

si arrampicano verso l’alto

sullo steccato di recinzione

sotto la fresca rugiada mattutina.

I piselli abbondano la loro dolce melodia

arricchisce la natura

sotto la fresca rugiada mattutina.

Steli verdi si attorcigliano in alto

la frutta incinta matura scarlatta

si raccolgono i pomodori

sotto la fresca rugiada mattutina

All’alba un colibrì inizia la sua giornata

gloria mattutina cercata

sotto la fresca rugiada mattutina.

Ora, ci sono i tuoi fiori

la viola del pensiero celeste nei tuoi occhi

la rosa rosso lucido delle tue labbra

il giglio ragno del tuo corpo cremoso

il bianco della tua rabbia di oleandro.

e l’universo di colori e profumi che sei tu.

Ti vedo in ogni colore di ogni fiore,

i petali che cadono volteggiano giocosamente

sotto la fresca rugiada mattutina.

Ma forse, vedo di più in te la semplice eleganza

il fiore che non appassisce, l’amaranto,

umile e forte con la sua bellezza eterna

 

II

 

L‘orologio del campanile

Mi sveglia presto un mattino di luglio.

Il cielo è semicoperto, l’aria afosa

La pioggia non tarda

Rinfresca i fiori nelle aiuole e nei vasi

Le foglie degli alberi rinverdiscono

Sembra quasi un mare l’erba.

Un colibrì saetta da un fiore all’altro,

scaccia le api che si nutrono dello stesso nettare

Ha il dorso verde e il ventre grigio scuro.

Un anello rosso attorno al collo

Sembra che indossi un frac

La sua coda biforcuta lentamente

Si muove su e giù, lo tiene in equilibrio

Infila il lungo becco e trafigge

Mandeville, Azalee, Zinnie, poi la salvia.

 

III

 

Anche al pianterreno della palazzina di Buffalo

il vento che soffia dal lago Erie penetra attraverso

fessure delle finestre a ovest, la sua cantilena ci sveglia

perfettamente intonato in primavera ed estate

i piccoli colibrì piroettanti si nutrono d’acqua dolce

difendono il loro territorio fino all’ultima goccia.

 

Gli scoiattoli divertenti per tutti saltellano sui rami

degli alberi. Mi rattristo quando finisce la bella stagione

e partono i minuscoli uccellini: lacrime grandi cadono su

foglie di piante sottostanti, l’autunno è in arrivo

ma i colori dei fiori sono ancora splendenti

solo qualche foglia ingiallita durante le migrazioni.

 

Ora la cantilena si trasforma in raffiche stonate, ogni

cosa non legata finisce stagionalmente sulla riva del lago.

 

IV

 

Piccola e leggera, da noi sai nasconderti,

Come la viola e l’astro, semplice e bella,

Nei prati d’erba, al tepore della primavera

Spunti, e noi possiamo ammirarti e lodarti.

 

Dall’aldiquà cosa posso pensare?

Piccolo velo, avvolta in tanto mistero,

Quando saprò comprendere del creato il vero?

Altro non posso che restare a guardare.

 

 

Lentamente crescerai, visibile alla gente,

Da giovane toglievo i tuoi petali uno per uno

“M’ama, non m’ama” la tua risposta non mente.

 

Vicino alla sorgente un poeta legge e sospira,

E tu margherita da sempre lo stai ad ascoltare,

Sei una creatura di Dio, un fiore che ispira.

 

V

 

Marina mi ha insegnato

ad andare in bicicletta

d’estate,

girando attorno allo stagno

vicino al campo di grano

dorato.

All’ombra del salice

ci siamo riposati.

Le rane gracidavano

cacciando insetti e vermi,

le rondini si rinfrescavano

nello stagno.

Un giorno il contadino

l’ha fatta cadere dalla bicicletta,

quasi.

Andavamo in giro per i campi

spensierati.

A fine giugno le trebbiatrici

separavano i chicchi dorati,

poggiandoli sull’aia

e imballavano le balle di paglia

accatastate nel fienile,

dove noi al tramonto

furtivamente

scoprivamo espressioni

nuove dell’amicizia,

Per San Martino Marina

ha traslocato.

Mi ha lasciato solo con la mia

ombra.

Ho cercato sollievo e Marina

in quell’ombra.

Invano.

 

VI

 

Pioggia di primavera benvenuta

Risvegli la natura addormentata

Alberi, erba, cespugli e i primi fiori

Inizia la danza degli uccelli e degli amori.

Preannunci la pioggia estiva

Rigagnoli, fiumi e laghi si gonfiano.

 

Nel cielo tuoni e fulmini trionfano

Il forte vento furioso e lacerante,

Canto che mi entra in corpo e mente.

Se non grandina arriva l’arcobaleno,

Dalla soglia lo ammira il contadino.

 

Piogge autunnali si riversano sul prato

I solchi e le zolle umide si mescolano,

Le foglie ingiallite dai rami offuscano.

In un sogno ti stringo forte forte

Per convincerti a dimenticare

Le cose che sono amare.

 

Pioggia invernale, scendi con forza

La legna sul focolare avvampa,

Dal freddo il suo calore mi riscalda.

Libri e immagini famigliari

Mi rincuorano, tanto mi son cari.

Arriveranno gli acquazzoni di primavera

E anche gli amanti giorno e sera,

Ridestano gioie delicate e il dolore.

Ricordi che trafiggono il cuore.

 

Pioggia di primavera e d’estate

Pioggia d’autunno e d’inverno,

Amo la gioia e il dolore che mi porti!

 

VII

 

Hanno previsto pioggia

i raccoglitori di lumache

preparano secchi e torce

per la lunga passeggiata.

 

Lungo i fossi e nei campi

erba e cespugli si bagneranno

i raccoglitori di lumache

s’incamminano lentamente.

 

Nella quiete assoluta

i giovani raggi di luna

rivelano i sentieri viscidi

delle lumache sugli steli d’erba.

 

A pochi metri uno dall’altro

due ottuagenari raccolgono

conchiglie marroni

scintillanti come pietre preziose.

 

A volte passano minuti

per trovarne un’altra. Anche ore.

Ma loro continuano a passo lento

nella notte attraverso il campo.

 

Li accompagnano le rane

che gracchiano nello stagno

in armonia con lo stridio del gufo

e dei tanti pipistrelli.

 

Gli steli frusciano di nuovo

mossi dal vento e dalle lumache

l’ululato del bracco dall’aia

li richiama verso casa.

 

VIII

 

Il gallo canta

e il vecchierello

di buon’ora

nella stalla lavora.

 

Le foglie ingiallite

cullate dalla brezza

lasciano il ramo

del melograno.

 

Ruspa fra le pannocchie

in cerca di chicchi

sull’aia assolata

la gallina affamata.

 

Un bacio della mamma

interrompe l’incubo

sorride il bambino

al sole mattutino.

 

Il mosto ribolle

nella botte di rovere

pregusta il contadino

l’arrivo del buon vino.

 

L’autunno precede

il freddo e il gelo

all’inverno imminente

si prepara la gente.

 

IX

 

Amo il mattino di ogni stagione

per l’equilibrio che implica,

essendo qualcosa con cui lotto.

Suppongo che mi piacerebbe essere

una stella, che si accende e si spegne,

scende di nuovo alle polarità,

equilibrio.

Mattina. Le farfalle

prendono il posto delle falene,

le rondini il posto dei pipistrelli

i cani il posto dei coyote

dalla quiete notturna al risveglio,

il torpore lascia il posto alla luminosità.

Donne, uomini e bambini,

flora e fauna iniziano la loro danza

e questo mi piace.

Sistemi. fanno mattino tutt’intorno a noi

anche ora, mentre ci inginocchiamo

per ringraziare madre natura.

Dove vorrei essere tra dieci

anni, qualcuno chiede... e cosa

posso rispondere? Arrendersi

con grazia al mattino, con

tutta la grazia che posso raccogliere

dalla circostanza delle tenebre,

che è solo un’altra cosa

che non resta. Si dissolve,

e “m’illumino d’immenso.”

 

X

 

Un tiepido sole illumina le foglie di colori variopinti

Tingendo gli alberi di splendore autunnale

I tableaux da madre natura dipinti

Raccontano una storia stagionale.

 

L’incantesimo del canto degli uccelli

Porta gioia di vivere a bambini e adulti

Mentre il buon mosto bolle nei tinelli

Come trasmettono i sorrisi sui loro volti.

 

Tutto ciò che giace sotto le foglie cadute

Un mistero nei sogni di una ragazzina

Evocano desideri di cose mai avute

Nei pensieri innocenti della bambina.

 

A casa l’attende il calore del focolare

Le caldarroste scoppiettano sulle braci

La fanciulla già sente fragranza e sapore

I nonni l’accolgono con amorevoli baci.

 

Il lungo viale boscoso di notte si trasforma

Era un giardino dorato nell’ora diurna

Mostra tutte le stelle e una splendida luna

Ora un argenteo splendore nell’ora notturna.

 

Le coppiette sottobraccio osservavano i fiori

E i fiori erano belli e freschi e umidi

La rosa vergine e il giglio diversi e rari

Raccolgono il canto degli amanti timidi.

 

La margherita felice i rossi papaveri

Caricano di sogni l’aria della sera

Portando le risate fra i ricchi e i poveri

In quest’idillio bel tempo si spera.

 

XI

 

Molto tempo fa qualcuno

Mi ha scolpito nelle sembianze di un dio

Ora ho dimenticato quale dio

Avrei dovuto rappresentare.

Non ho coscienza ora che della pietra

Della luce del sole e della pioggia

Il sole che cuoce la mia pelle di pietra

Il vento che solleva i miei capelli

La luce del sole è calda su di me

La luce della luna è fresca

Lanciando uno schema argentato di luce e oscurità

Sui piani del mio corpo

I miei pensieri ora sono i pensieri di una pietra

La mia sostanza ora è la sostanza della vita stessa

Sono sprofondato nella vita come si sprofonda nel sonno

La vita è sopra di me, sotto di me, intorno a me

Muovendomi attraverso i miei pori di pietra

Non importa quanto piccolo sia lo spazio in cui racchiudi la vita

Quello spazio è grande quanto l'universo

Spazio, volume e la sfumatura del volume

Ti muovi attraverso me come accordi di musica

Come il sapore della felicità in gola

Che temi di perdere, anche se potrebbe soffocarti

Nelle città questo non si sa

Per lo spazio c'è il vuoto

E il tempo è tormento

Da quando sono diventato una pietra

Non ho bisogno di ricordare nulla

Tutto è ricordato per me

Vivo e penso e sogno come una pietra

Nella calda luce del sole, nella pioggia tumida

Tutte le mie superfici sono toccate dalla morbidezza

Dalle dita leggere del vento

Il lento gocciolare della pioggia

Il mio corpo conserva solo debolmente l’immagine

Che doveva rappresentare

Sono più bella e meno rigida

Sono una parte dello spazio

Il tempo è entrato in me

La vita è passata attraverso di me

Che importa il nome del dio che avrei dovuto rappresentare

 

 

© Andrea Guiati 2023