domenica 15 novembre 2020

L'ANGELO SEMINATORE

 Una lettura che colpisce

Angelo e Samuele

sempre in noi e con noi

Esternazioni e considerazioni

personali e senza pretese

a cura di Benito Poggio

Autori: Isa Morando & Vito Ugo L’Episcopo

Titolo: L’Angelo seminatore

dedicato ad Angelo Marchese.

Illustrazioni: Disegni di Nanni Perazzo.

Editore: Città del silenzio, Genova



*Sparse riflessioni a carattere generale

La presente lettura – non so se portata avanti da “lettore molto compiacente / – o

forse, ancora più, molto paziente” (p. 47) – l’ho percorsa come ininterrotto colloquio

d’anime e, lo devo ammettere con sincerità, mi ha colpito duro, senza mai attenuare

una certa qual forma di invadenza in me: nella mia mente e nel mio cuore.

Sì, l’importante opera-a-due è un lavoro di impegno sodo e solidale che mi ha

colpito nel profondo perché il prezioso ordito in poesia e in prosa dei due autori, Isa

Morando e Vito Ugo L’Episcopo, sia pure con diversa mano creativa e con differente

empito lirico, ha saputo con forza e senza infingimenti coagularsi approfonditamente,

esprimendole per di più “in veritate mentis ac etiam in veritate cordis”, attorno a

narrazioni e conversazioni, divagazioni e temi lirici tutti connotati da lente e meditate

estrinsecazioni e improvvise e subitanee epifanie.

In senso lato l’intesa espositiva e il modus cogitandi – dischiusi non solo in poesia e

in prosa, ma anche in realtà e in immaginazione – dei due poeti si diffondono, a mio

avviso, alla volta di territori poietici (vale a significare nell’ambito di una creatività

onnicomprensiva), densi di novità e nel contempo sorprendenti.

E tutto ciò proprio grazie al loro pensiero – sempre e ovunque – intriso di forza e di

convinzione: a dire un pensiero forte nell’emanazione dei loro vivi e vitali mondi

interiori connessi sempre all’esistente di ieri e di oggi, e che mai, e per nessuna

ragione, si fa e decade relativisticamente a pensiero debole.

Le due voci, pur nella dissimiglianza lirico-espressiva e nell’alternanza di tonalità

nelle prose, dedicano in piena concordia al collega e maestro Angelo Marchese e

cantano all’unisono foscolianamente (Dei sepolcri, v. 32-33) “l’amico estinto / e

l’estinto con noi” (p. 88) in un lancinante ricordo nel vigesimo (2000-2020) della sua

scomparsa in quella catulliana “nox … perpetua una dormienda” (Carme V), detta dal

rinomato latinista (colombino e normalista) Franco Caviglia (1940-2016) “una notte

soltanto da dormire, infinita” (Catullo, Poesie, Laterza).

Già “al confine sconosciuto” (p. 97), identificato nell’amletica “undiscover’d

country / from whose bourn no traveller returns”, Angelo Marchese qui appare come

«L’angelo seminatore», nel “dopo / che ci aspetta in silenzio, senza fine” (p. 39) e,

idealmente accomunandosi, comprende anche il tragico richiamo ai sogni infranti

suggeriti in «Il ponte di Samuele», un bambino di otto anni che sul “ponte di

cristallo” sta “correndo tra i bagliori della luce” (p. 104). come lo indica, ispirato, il

poeta Giuseppe Conte.

Entrambe le voci si esprimono verso chi è stato apprezzato e benvoluto senza

prevaricazione dell’una sull’altra, cariche e concentrate come sono in emozioni forti e

inquietudini divaricate.

A mio sentire, nel suo complesso e nella sua complessità, l’ampio potenziale liricoespressivo

si rivela sensibile ma non sentimentale nel cerchio delle poesie e delle

prose che fanno capo alla Morando; disincantato ma pregnante nel campo dei testi di

L’Episcopo, vigorosamente martellati con insolita veemenza in poesia e in prosa,

preceduti dall’amichevole e affettuosa introduzione (che richiamerò anche più oltre)

della stessa Morando, cui segue una scelta di composizioni da sei-sillogi-sei: pure, in

entrambi, tale potenziale lirico-espressivo si attiva e incanta da dentro, mai

dall’esterno o dall’alto.

...La liricità, in senso proprio, domina gli animi dei due autori ché nei loro versi si

dicono e spiccano fatti e verità onnicomprensive, non mai per metafora ma “come

ditta dentro” nella loro evidente e determinata corporeità e nel loro effettivo e

tangibile attaccamento alla vita.

Come filo conduttore al centro focale dell’opera, così io reputo, stagliano (rifiuto

sempre il “si” ch’io ritengo superfluo ed errato) Angelo, “il messaggero seminatore”

e Samuele, “il suo nome è Dio”: due figure vive e reali, fattesi immaginifiche

nell’oltrevita, ma che hanno vissuto entrambe tra noi e con noi: due figure oggi

apparentemente labili e pur persistenti nella loro esistenza conclusasi solo sulla terra,

non nel cuore e nell’anima di Anna, non nei cuori e nelle anime di noi tutti.

In apparente distanza giacché in realtà fra loro v’è vicinanza e complicità d’intenti,

i due autori, uniti da un r/esistente filo in/visibile e im/materiale, si lasciano andare e

coinvolgere in un intenso e prolungato colloquio di poesie, e anche di prose, che si fa

incessante e continuo, pertinente e commosso “duologo” attraverso il quale scorrono,

strettamente e intensamente, fiumi di versi nitidi, di espressioni icastiche, di pensieri

eloquenti, di concetti efficaci.

E poesie e prose fra loro correlate finiscono per fare di quest’opera – e non paia

iperbolica o enfatica esagerazione – una sorta di rinnovata, e oserei dire aggiornata,

«Vita nova» consegnata al nostro tempo come rivisitazione delle vicende di Angelo e

di Simone, disseminata di versi, pensieri, riflessioni, commenti connessi a entrambi.

...Se quella dantesca, come tutt’uno, contava su un unico autore, qui confluiscono e si

alternano, ma non si contrappongono, due identità e due autori nei loro specifici

mondi: Isa Morando (pp. 17-109) e Vito Ugo L’Episcopo (pp. 111-168).

Suddivise in due campi ispirate liriche e prose distintamente composte dai due

autori, inanellate e assemblate in un unum concettuale, si susseguono in tempi di

preciso riordino, appunto in fasi di pertinente ed esegetico commento da esse

scaturito e ad esse collegato.

...Nelle liriche dell’una e dell’altro si dà costantemente ragione della vita nei suoi più

felici momenti e più fecondi incontri conoscitivi e di lunga durata, nei suoi più

disparati contorni e nei suoi plurimi accadimenti; ma si vuol dare altresì ragione di

cause e princìpi, di significati e contenuti: il tutto, per la Morando, attraverso una

fervida alternanza di poesie e prose; per L’Episcopo, prevalentemente in dettami di

versi ossessionati nella loro cadenza e in due testi in prosa di una qualche crudezza:

entrambi gli autori evidenziano elevata maturazione interiore e appassionata

ricchezza del dire e del sentire.

Il libro in questione chiarisce un procedimento, a volte semplice e immediato, ma

che risulta armonico e ben congegnato nel suo vivo tessuto articolato, pur se a vari

livelli di lettura esegetica e di decodifica interpretativa: più tenuta alle forme

classiche del passato e del presente nella Morando, che rievoca e spazia dall’arte, alla

letteratura, alla filosofia, al teatro, al cinema et al.; più evoluta e involuta, come

“l’ombra che di ciò che fu e sarà” (p. 164) in considerazioni art-oniriche di presa di

coscienza, di giustificata contestazione e di, così mi pare, contenuta disperazione in

L’Episcopo.

Certamente costruzione e decostruzione dell’opera si basano su un’elaborazione

tanto meditata, interiorizzata e partecipata quanto insolitamente disincantata, rapita e

trasognata, ma senza dubbio sono inizialmente raccordate, quasi in un duetto di

timbro e tenore musicali, dalla fervente ouverture “Per Isa. Dalla vita semplice” (p.

15) che L’Episcopo dedica alla Morando, ove l’incipit proclama e sanziona “Poesia è

chi siamo” e l’explicit attesta alla dedicataria lo specifico, perentorio e acriptico status

che non ammette replica: “Isa è Poeta”; differente il sapore dell’ouverture “Ecco mio

padre… l’ultimo a destra della prima fila…” (p. 115) che la Morando elabora in

dedica a L’Episcopo: serba chiaramente, e lo si è detto più sopra, un tono piano e

rievocativo e, grazie anche alla storica e originale “foto dei tredici ragazzi” (p. 116)

quasi diciottenni, ferma il tempo, come suggerisce la Morando, “per poterlo fissare

per sempre in un’immagine” (ib.), prima che, trasformate in vittime sacrali,

l’imminente, mostruoso e violento moloch della guerra li fagociti e se ne appropri

senza alcuna pietà.

*Sporadici rilievi ed episodiche postille all’interno dell’opera

*Ci tengo a puntualizzare che mi accosto alla duplice partizione morandiana di «A

margine. Frammenti di scrittura (2019)» con la riguardosa decenza da critico alquanto

dimesso qual sono (nullo se raffrontato con l’amico e maestro Angelo) e perciò

conscio della personale pochezza e dei propri limiti nel pronunciarsi sugli altrui

lavori.

Qui la raccolta si snoda in sedici composizioni cinte, e quasi accerchiate, da un

pensoso corredo di prose dallo stile puro, pacato e piacevole, fattesi commenti o

conversazioni, resoconti o descrizioni, o infine assumendo andamento e tonalità di

amicali lettere indirizzate ad Angelo, tese a svelare e divulgare il sapore di una

poetica innervata a spontanei richiami di vita, di intensa e prolungata amicizia con lui

e a naturali estesi rimandi culturali, frutto, sì, di frequentazioni di colleganza e

d’amicizia ad ampio raggio con persona cui “tanto nomine nullum par elogium”, ma

anche di acquisizioni personali e interiorizzate nel campo professionale della docenza

(“la mitica terza E 1972-73”, pp. 108-9) e di costanti approfondimenti su autori

protagonisti non solo del suo mai dimenticato mondo classico, ma anche del mondo

passato più recente, del mondo moderno e del mondo contemporaneo in lei

connaturati.

Non poteva non essere – tratto dal Libro V/170 di quella insondabile miniera che è

l’“Antologia Palatina” – che con Nòsside di Locri l’avvio del raffinato e frastagliato

cammino, poetessa quella – si tramanda – “autrice di canti lirici densi di erotismo” e

per la quale, nelle parole del filologo classico e grecista Guido Paduano, “Niente è

più dolce di amore”.

Anche se a primo intuito non pare, il salto da Nòsside all’amico e poeta Giuseppe

Conte, anch’egli, come nel film di J. Losey, considerato “Messaggero d’amore” (p.

21), così come ai successivi incontri con i tanti personaggi della cultura e dell’arte qui

ricordati, è davvero logico e concettualmente molto breve.

E tra i numerosi amati autori qui citati – troppo numerosi davvero per elencarli tutti

– perché incontrati, studiati e amati non poteva mancare Dante: il Dante particolare

dell’Inferno, quello che “rovinava in basso loco” (p. 55) come capita nei sogni a Isa

Morando.

*Il mio personale e inatteso impatto con gli agili e fluidi versi che martellano in «Dei

solchi e dei passi (antologia del fiume Bisagno)» e marcano e rimarcano “il pianto

senza tempo / Dell’essere qui adesso” (p. 122) e le due prose “Sintassi del morire #2”

(che m’è parsa la trama di “Psycho” riletta al contrario) e “Sintassi del morire #3” (p.

158-159) di Vito Ugo L’Episcopo, già “carissimo ex alunno del Colombo e di Angelo

Marchese” (p. 86), mi hanno in parte sorpreso col loro “suono di ghiaccio” (p. 127).

E l’indelebile scia del suo Maestro si può sommariamente percepire in alcuni dei

risoluti e incisivi versi di L’Episcopo “come l’onda / lasciamo una tenue / risacca di

noi” (p. 129) in cui, mi sembra, è stimolato a inseguire quelli di Marchese “sconfitti,

rassegnati, / alla risacca della vita” (p. 171).

Ma in L’Episcopo incontriamo anche un inatteso e vivo “sole pittore d’ombre” (p.

130), mentre in lui anti-dannunzianamente non è la pioggia che cade sui ecc. ecc., ma

è “il tempo [che] corre / sulle…/ sulla…/ sui…/ sul…” (p. 134); e poi

capronianamente una salsedinosa “Genova” (p. 135) che “respira da lontano” (ib.),

non da Castelletto, ma “Dal Biscione” (ib.) che stende “a braccio sulla città / un

manto morbido e scuro” (ib.) e dove con sirenica melodia “le vele sorseggiano

l’acqua salata” (p. 167).

E su tutto, quasi “sogno non-sogno” (p.140), “ritorna il suono muto del silenzio” (p.

139) che “è un canto disperato” (ib.), e con disperazione chiude il poeta: “non saprò

mai / la fine della storia” (p. 168).

*A questo punto è il caso di ricordare che “finis coronat opus” con l’ultimo canto

«Resisti»: un titolo che per Angelo Marchese, qui poeta vero come il suo Montale et

al., altro non è apparentemente che “frusta parola” (p. 171), ma nel breve commento

introduttivo è correttamente e con nobile intuizione definito “sublime eredità morale

per noi tutti” (ib.).

E, se pure il critico-poeta abbia composto questo lungo canto e meditato recitativo

quasi mezzo secolo fa, si deve ammettere ch’esso conserva alla nostra odierna lettura

tutta la penetrante e acuta profondità concettuale di cui lui, “l’Angelo seminatore”,

era capace.

L’ha indirizzato all’uomo, cioè a tutti e a ciascuno di noi, invocandoci “o

compagno di strada” (ib.) e all’uomo, a tutti e a ciascuno di noi l’invito “resisti” è

ripetuto insistentemente, e per ben dodici volte: una volta a chiusura della prima

sezione, ben dieci volte nella seconda sezione e una volta, ma con una particolare vis

riepilogativa, come chiusa a puntello dell’intero testo.

… L’ho sempre letta questa composizione-messaggio come vera e propria “enciclica

laica” per gli inviti comportamentali virtuosi e per le innegabili verità di evangelico

sapore che espone oltre che per la validità in sé che supera il tempo e si situa al di

sopra dei tempi.

Basti, tra tutti, il messaggio permanente da “l’Angelo seminatore” gridato con

inusuale foga nel verso “C’è la fame, la guerra, l’ingiustizia nel mondo” (p. 173) per

avallare l’intero contenuto e sancire con lui, l’autore Angelo Marchese, quella validità

che supera qualsiasi analisi e dà ostinata e persistente efficacia al suo non effimero

“resisti” (pp. 1711,17210, 1741).

*Pregevoli, suggestivi e delicati i disegni di Nanni Perazzo che come sempre

affiancano e da sempre accompagnano i lavori dell’autrice “lungo il sentiero” (p. 16)

del suo impegno a tutto tondo, dando concretezza non solo ai suoi versi e arricchendo

indubbiamente la leggibilità dei suoi testi.

E nel porre la parola fine a questa mia personale lettura, m’è ritornato alla mente

quanto lessi una volta in una lettera alla sua Giulia (i.e. Julia Schucht, 1923-1937)

dell’austero studioso Antonio Gramsci (1891-1937): “mi ripugna scrivere le solite

vacuità” (Lettere dal carcere, 144): ebbene mi auguro proprio di non esserci incorso

io in questo mio trattatello senza pretese o come delinea Aulo Gellio (Noctes Atticae,

VII, passim) “in questa mia questioncella (declamantiunculam) di duplice

interpretazione” su Isa Morando e Vito Ugo L’Episcopo.

Benito Poggio

sabato 7 novembre 2020

DINA BELLRHAM


Lorenzo Spurio con la traduzione in italiano della raccolta di poesie Le iguane non mi turbano più ci fa conoscere una nuova, interessantissima poetessa, la ecuadoriana Dina Bellrham (1984-2011)

 

Per Le Mezzelane Editore di Santa Maria Nuova (AN) è uscito in questi giorni il libro Le iguane non mi turbano più, una ricca e commentata selezione di poesie di Dina Bellrham, tradotte dal poeta e critico letterario Lorenzo Spurio in italiano.

L’opera è il frutto di un lavoro di studio, analisi e traduzione dell’opera poetica della poetessa ecuadoriana Edelina Adriana Beltrán Ramos (1984-2011), meglio nota con lo pseudonimo di Dina Bellrham, studentessa al quinto anno di Medicina presso l’Università Statale di Guayaquil (Ecuador), con la passione per la poesia (era grande appassionata di Alejandra Pizarnik) che fece parte del gruppo poetico giovanile “Buseta de Papel”. Pubblicò due raccolte poetiche: Con Plexo de Culpa (2008) e La Mujer de Helio (2011). Grazie all’interessamento della famiglia, nella figura della madre Cecibel Ramos e del critico letterario Siomara España, postumi sono stati pubblicati i volumi Je suis malade (2012) e Inédita Bellrham (2013). Alcune sue poesie sono state tradotte in inglese e francese su riviste e blog di cultura mentre questo di Spurio rappresenta il primo libro organico, in una lingua diversa dallo spagnolo, prodotto su testi della giovane poetessa dello stato del Guayas.

Tale edizione è stata possibile grazie alla disponibilità e al consenso della famiglia, nella figura della madre, la signora Cecibel Ramos. A impreziosire il volume si trova un ampio studio critico preliminare a cura della poetessa e critico letterario Siomara España, tradotto in italiano dal curatore dal titolo Dina Bellrham: contemplazione e comparsa, nel quale si indagano con attenzione le caratteristiche preminenti della poetica della giovane poetessa.

Come si legge dalla quarta di copertina: «La poesia della Bellrham è sospesa tra un fosco presentimento della morte – quasi un dialogo continuo con l’oltretomba – e una tensione amorosa per la vita, la famiglia e la quotidianità dei giorni della quale, pure, non manca di mettere in luce idiosincrasie, violenze e ingiustizie diffuse. La critica ha parlato di una sorta di nuovo Barocco per la sua poesia dove coesistono terminologie specialistiche della Medicina e squarci visionari che fanno pensare al più puro surrealismo. Entrare in una poetica così magmatica e a tratti scivolosa per cercarne di dare una versione nella nostra lingua non è compito semplice, dal momento che la poetessa coniò – come il critico Siomara España annota nello studio preliminare – un suo codice linguistico particolarissimo, inedito, personale e multi-stratificato. Eppure è un tentativo sentito (e in qualche modo doveroso) frutto di quella “chiamata” insondabile che non si è potuto eludere».


Le iguane non mi turbano più


Le iguane non mi turbano più:

pensavo alla loro coda

e al mio collo

e alla morte.

Però una di esse mi sorrideva

-i gringo (117) sicuramente pensavano alla giunga-

(ma era solo un parco)-

E non seppi (118) [più] come inghiottire il pianto

e corsi

mentre l’iguana stava inviolata (119)

e il dolore, qui

nella metà del parco

quando l’iguana per [la] prima volta

non volle gettare [la] sua coda.

E corsi

e il dolore, qui

arse (120) tutto lo spazio del fumo

e il sorriso dell’iguana

però fa male (121)

questa fotografia dei gringo

e la loro biancheria istrionica…

Deve essere

questo, che arde

trucioli

in questa foto

e nel sorriso

deve essere

che ogni parte di me

quel giorno si perse

in quel parco.


117 Il termine gringo di acquisizione e uso anche nella nostra lingua, ha un

significato chiaro. In spagnolo esso può stare sia per “straniero” che per

gringo (secondo alcuni, una definizione dispregiativa), ovvero

anglofono in terra sudamericana.

118 Nella versione originale viene usato il presente (Ya no sé) ma dato che i

versi che seguono fanno riferimento a un qualcosa avvenuto nel passato

ho deciso di rendere anche tale forma verbale al passato.

119 Il termine originale, intacta, può far valere diverse accezioni nella nostra

lingua: “intatta” e “inviolata”; quest’ultima sia nel senso di

“indisturbata” che “non oltraggiata”.

120 Anche in questo caso il verbo nell’originale era al presente e si è deciso

di renderlo al passato.

121 L’originale recita duele (verbo doler) che può essere reso con “dolere”,

“far male”, “procurare male”, “far soffrire”.

Dina Bellrham, pseudonimo di Edelina Adriana Beltrán Ramos, nacque a Milagro, nella provincia di Guayas, nello stato dell’Ecuador il 6 luglio 1984 ed è morta suicida a Guayaquil il 27 ottobre del 2011. Studentessa al quinto anno di Medicina presso l’Università Statale di Guayaquil, con la passione per la poesia (grande appassionata di Alejandra Pizarnik), ha fatto parte del gruppo poetico giovanile “Buseta de Papel”. Due le raccolte poetiche pubblicate: Con Plexo de Culpa (2008) e La Mujer de Helio (2011); altri lavori sono stati pubblicati postumi. Grazie all’interessamento della famiglia, nella figura della madre Cecibel Ramos e del critico letterario Siomara España, postumi sono stati pubblicati i volumi Je suis malade (2012) e Inédita Bellrham (2013). Alcune sue poesie sono state tradotte in inglese e francese su riviste e blog di cultura.


Lorenzo Spurio (Jesi, 1985), poeta, scrittore e critico letterario. Per la poesia ha pubblicato Neoplasie civili (2014), La testa tra le mani (2016), Le acque depresse (2016), Tra gli aranci e la menta. Recitativo dell’assenza per Federico García Lorca (I ediz. 2016; II ediz. 2020) e Pareidolia (2018). Ha curato antologie poetiche tra cui Convivio in versi. Mappatura democratica della poesia marchigiana (2016, 2 voll.). Intensa la sua attività quale critico con la pubblicazione di saggi in rivista e volume, approfondimenti, prevalentemente sulla letteratura straniera, tra cui le monografie su Ian McEwan e il volume Cattivi dentro: dominazione, violenza e deviazione in alcune opere scelte della letteratura straniera (2018). Si è dedicato anche allo studio della poesia della sua regione pubblicando Scritti marchigiani (2017) e La nuova poesia marchigiana (2019). Tra i suoi principali interessi figura il poeta e drammaturgo spagnolo Federico García Lorca al quale ha dedicato un ampio saggio sulla sua opera teatrale, tutt’ora inedito e tiene incontri tematici. Ha tradotto dallo spagnolo racconti di César Vallejo e di Juan José Millás e una selezione di poesie di Dina Bellrham confluite in Le iguane non mi turbano più (2020). Su di lui si sono espressi, tra gli altri, Giorgio Bàrberi Squarotti, Dante Maffia, Corrado Calabrò, Ugo Piscopo, Nazario Pardini, Antonio Spagnuolo, Sandro Gros-Pietro, Guido Oldani, Mariella Bettarini, Emerico Giachery e numerosi altri.