mercoledì 17 novembre 2021

RECENSIONE

 

Rosa Elisa Giangoia


La vita, nel nostro mondo, nelle nostre città e nei nostri paesi, sul mare e in campagna, è tanto cambiata nel giro di un secolo che possiamo dire che il nostro passato va riscoperto, non nei grandi avvenimenti della Storia, che possiamo conoscere dai libri, ma nella realtà della vita quotidiana che va recuperata attraverso l’indagine e la ricerca anche di piccole tracce che, messe insieme con intelligenza e quel tanto di fantasia che aumenta l’immaginazione, ci dà la possibilità di ricostruire il passato della vita di tutti i giorni, con un procedimento che potremmo definire di “invenzione della realtà”
È quello che ha fatto con molta abilità Miriam Pastorino nel suo romanzo Berta. Eroina di un tempo lontano in cui, ispirandosi alle vicende di una sua antenata, ha ricostruito la vita di uno dei piccoli paesi montani dell’entroterra ligure in Val Leira, zona nota per il santuario di Nostra Signora dell’Acquasanta, costruito tra la fine del Seicento e gli inizi del Settecento, in seguito a un’apparizione mariana e ad avvenimenti miracolosi, ma territorio importante anche per il gran numero di cartiere che l’hanno reso il secondo in Italia per questo genere di attività, dopo Fabriano.
È un mondo popolato da persone che, pur con diversità socio-economica, vivono nella semplicità del lavoro nelle varie cartiere e nelle attività ad esse connesse, come quella dei carrettieri che portano la carta nel porto di Genova per imbarcarla e farla arrivare nelle più diverse destinazioni. Questo è anche il lavoro di Tomàs Piccardo, venuto dalla Catalogna e lì stabilitosi, dopo il matrimonio con Cassia: una bella famiglia la sua, con quattro figli maschi, in rapida successione, una bimba, Berta appunto, e un altro maschietto. Appena i primi figli crescono, iniziano a lavorare con il padre, per cui la loro attività si organizza bene con buoni guadagni, mentre Berta aiuta in casa la mamma, rendendosi utile con l’occuparsi del fratellino.
È lei la protagonista di tutto il romanzo, fin da bambina una personcina coraggiosa fino ad essere spericolata, amante dei giochi e delle avventure da maschiaccio, imprudente nei comportamenti con il fratellino per cui viene criticata e guardata con un certo sospetto da tutti i vicini.
Infatti intorno a questo nucleo familiare c’è il piccolo borgo di Campogennaio, che vive di relazioni non sempre facili e sincere, tra invidie, risentimenti, malanimi e altri difetti tipici dell’animo umano, in un paesaggio naturale sassoso e per nulla generoso, dove anche le ciliegie e le bacche sono rare e sempre aspre…

giovedì 14 ottobre 2021

PRESENTAZIONE E RECENSIONE

MARIA CRISTINA CASTELLANI

 

 La vita di un uomo. La sua scuola.



   Vita di scuola. Scuola di vita: così Renato Dellepiane, già con il titolo del libro, ci indirizza verso la lettura più corretta della sua autobiografia. Il racconto di una vita, che comprende gli anni dal 1944, data di nascita dell’Autore, sino al 2011, anno del suo pensionamento, con una breve postfazione scritta nove anni dopo.
   Una storia di vita, la storia privata dell’Autore, che si intreccia, sin dall’inizio, con la vita genovese nell’immediato dopoguerra, e, immediatamente, insieme al ricordo della strada e dei giochi con i compagni, con una forte attenzione riservata alla scuola, ricordando, anche nei minimi dettagli, la scuola elementare negli anni Cinquanta. Era la scuola dei banchi in legno, come appare dalla deliziosa foto vintage della copertina, con le classi maschili e femminili, l’ingresso separato e, per i maschi, i grembiulini neri, con il colletto bianco. E, soprattutto, un ottimo maestro, ricordato con affetto e riconoscenza. L’intreccio della storia privata con la storia di Genova, specie del quartiere di Sampierdarena, dove l’Autore è nato, ancora durante la Seconda Guerra Mondiale, nel 1944, prosegue, poi, con gli anni della Scuola Media, sempre nello stesso quartiere, e, infine, negli anni Sessanta, con il quinquennio nello storico Ginnasio-Liceo Classico del Ponente genovese il “G. Mazzini”, con il vivo ricordo dei compagni e degli insegnanti. E, quasi abbracciata alla storia personale di Dellepiane, ecco apparire la trasformazione di Genova, e soprattutto di Sampierdarena e dintorni, negli anni della ricostruzione. E poi l’Università, e la Facoltà di Lettere, sempre a Genova, e subito i primi anni di insegnamento, anche prima della Laurea, come avveniva allora, negli anni Sessanta, dopo l’introduzione della Scuola Media Unica e l’allargamento dell’istruzione superiore a un maggior numero di giovani, appartenenti a classi sociali che, negli anni precedenti, avrebbero terminato il loro curriculum studiorum solo con l’Avviamento Professionale. La società stava mutando… e chi ha vissuto in quegli anni, generosi e spesso turbolenti, forse non se ne rendeva conto. Ma domina, nella narrazione di quel periodo, un senso di affetto, non una generica laudatio temporis acti, ma un riconoscimento del valore formativo di quelle esperienze, spesso di giochi di strada, di quella scuola seria e selettiva, di quel contesto socio-politico, così caldo, in tutti i sensi...
   Si entra poi nella storia vera e propria dell’insegnamento, da “pendolare” e della passione vera dell’Autore per quelle che un tempo venivano definite le “Belle Lettere”. E belle lo erano davvero, se, ancora oggi, il Professor Dellepiane inserisce citazioni di Autori classici, italiani, francesi e altri, non solo come esergo o citazioni nel testo, ma riportandone interi brani, che irrompono, come pause affascinanti ed efficaci, nel ritmo narrativo: è come se l’Autore ci accompagnasse, tenendoci per mano, nel suo mondo, in stanze del passato, ricche di conoscenza e di affetto. Come se ci invitasse a rivisitarle con lui e si soffermasse, insieme a noi, a contemplare una foto, un quadro, uno scorcio di un panorama solo immaginato, dal momento che gli anni Cinquanta e Sessanta hanno spesso travolto l’assetto urbano di Genova, specie nelle periferie. Dellepiane ci guida in quelle stanze, all’inizio del libro, con una certa malinconia, poi stemperata dal crescere e dal maturare della sua esperienza di ragazzo, poi di uomo, di padre, ma, soprattutto, di insegnante. Dobbiamo immaginarlo in questo tour nella sua vita di docente, preside, letterato, cultore raffinato delle Lettere: si ferma, prende respiro e condivide con noi i versi più appropriati per farci respirare quell’atmosfera.
   Dopo l’insegnamento, Dellepiane diventa uno stimato Preside e la sua vita di pendolare prosegue perché, da Savona, dove aveva insegnato, assume la dirigenza di un Istituto Magistrale, in Piemonte, ad Asti, dove introduce interessanti sperimentazioni in una tipologia di scuola superiore che sembrava, ingiustamente, poco adeguata ai tempi. Una carriera in ascesa e poi il trasferimento al Liceo “M. L. King” di Genova, scuola che lo vede impegnato, dopo la svolta dei primi anni Duemila, l’autonomia scolastica e la dirigenza attribuita al personale direttivo, nella creazione di nuovi percorsi e nella internazionalizzazione di alcuni curricoli.
   Ma la Poesia lo segue. Ed ecco che i momenti della sua vita vengono scanditi dai versi. Ricordo, in particolare, anche per una mia simpatia per questi versi, nella prima parte del libro, la citazione del Compagno di banco di Marino Moretti, commovente ricordo della sua infanzia sampierdarenese, e, nell’ultima parte, la bellissima poesia di Camillo Sbarbaro, Versi a Dina, che Dellepiane ha dedicato alla sua attuale compagna di vita, la seconda moglie amatissima, che lui chiama “la scelta definitiva”. 
   Si sente, da queste e altre scelte letterarie, riportate passim nella trama autobiografica del testo, come la Letteratura, e in particolare la Poesia, abbiano accompagnato davvero il suo percorso di vita privata e professionale. Ciò viene peraltro confermato da un interessante dato nel suo curriculum, dal momento che Dellepiane è coautore di un’apprezzata Letteratura Italiana. Storia e Antologia (Signorelli, Milano, 1989).
   Un libro interessante, quindi, scritto, ovviamente, date le premesse, in un ottimo italiano, ma anche in modo limpido e sincero, che crea, nei più lettori più anziani, un piacevole flash back e, nei più giovani, curiosità di sapere come fosse la vita di scuola e la scuola di vita, dal 1944 al 2011. Un percorso dove ci sentiamo condotti, davvero, da un’ottima guida. Da un bravo insegnante, che condivide con noi l’album dei ricordi della sua Vita di scuola. Scuola di vita.



RENATO DELLEPIANE, Vita di scuola. Scuola di vita (1944-2011), Genova, De Ferrari, 2021, pp 360, € 18,00

domenica 10 ottobre 2021

GIOVANI POETI

Rosa Elisa Giangoia

Dopo otto anni di vita della Rivista Letteraria Mosse di Seppia, fondata e diretta a Napoli da Annalisa Davide, la redazione decide di dar vita ad una pubblicazione antologica cartacea dal titolo Versi vegetali per portare avanti lo stesso intento della rivista, cioè quello di «provare a credere nella costanza degli appuntamenti dal vivo, dello scambio simultaneo di idee e di sguardi» (5), in una parola creare poesia nella realtà del vivere, quindi sulla carta, bypassando il virtuale e il digitale, per avere, sulla consistenza della carta, qualcosa che contraddica quelle che sono le connotazioni evanescenti, ma portanti, del nostro tempo, cioè dare consistenza al leggere, al parlare e soprattutto al far poesia. Queste vengono percepite come espressione di un «atto veramente rivoluzionario» (7), perché in quanto individuali, autonome e personali entrano in opposizione con quei valori imposti dall’alto che contraddistinguono il mondo di oggi.
Sono propositi che mi trovano pienamente d’accordo, per il comune intento che anche noi perseguiamo, seppure con impegno e fatica, di portare avanti una rivista cartacea, in ossequi a quella fisicità attraverso la quale pensiamo debba passare la produzione letteraria. Altra consonanza è indubbiamente quella montaliana, per noi scoperta, attraverso i due nomi di SATURA prima e di XENIA ora che, da oltre un decennio sono i titoli delle nostre pubblicazioni periodiche, più sottotraccia e ironica quella dei giovani amici napoletani di “Mosse di Seppia”.
Anche il titolo Versi vegetali, sebbene giustificato con un’ispirazione dal testo di scritti di bibliofilia La memoria vegetale di Umberto Eco, riporta ad una concretezza vitalistica tale da porre i versi in un naturale divenire esistenziale, come quello di tutti gli elementi botanici: vivere è creare poesia, ma la poesia esprime la vita in un inscindibile intreccio.

domenica 8 agosto 2021

UNA POESIA

 

Odio in bianco e nero

                                                   di Andrea Guiati


Un gioco curioso della realtà, il caso,
vivo in una società dove regna l’odio.
Sopravvivo con poco, senza pretese,
andrà bene grazie alla fiducia degli amici.

Guarda al tuo mondo con occhi nuovi. Non cambia?
Siamo annientati dai più temerari. Lunatici?
Il pessimismo ha il sopravvento se lo lasci fare,
cominciamo a capire invecchiando.

Non è solo il vento che si raffredda,
siamo silenziosi entro i confini della società.
Tranquilli sperando che il mondo migliori,
qualcuno dice che il bicchiere è mezzo vuoto.

Il bicchiere è vuoto! Questo è il nostro mondo,
combatterlo forse è futile, ma necessario farlo.
La ribellione una costante, basta convincersi,
un fuoco che avvampa, non si estingue da solo.

Guardaci negli occhi, il messaggio è chiaro,
ci chiamavano hippies, figli dei fiori.
La verità, non siamo riusciti a sconfiggere gli intollerabili,
sembrava una calamità la guerra del Vietnam.

L’assassinio di Kennedy, Martin Luther King Jr.,
erano azioni volute da esseri umani, i nemici.
Non dovevano accadere, qualcuno è colpevole,
i nemici dell’uguaglianza ci sono ancora.

Michael Brown, Breonna Taylor, George Floyd,
uccisi da poliziotti per la loro pelle nera.
Hanno paura perché possiamo pensare, ragionare,
ora vogliamo spiegazioni, siamo alla resa dei conti.

Non avevamo ideali insensati, li abbiamo ancora,
desideriamo parità di diritti, giustizia sociale e pace.
Una gran voglia di vivere senza odio in bianco e nero,
E continuiamo a sognare in un modo migliore. Io e te.


©Andrea Guiati, 2021.

domenica 27 giugno 2021

DUE POESIE

 Da Buffalo (USA) Andrea Guiati e Celeste Varetto ci hanno mandato queste due poesie in versione bilingue.


Silence of the Heart                                             Il silenzio del cuore

I am alone for a while                                         Sono solo per un po’

And find me thinking                            E mi ritrovo a pensare

About His place on earth                                      Al Suo posto sulla terra

From the silence all around                                  Dal silenzio tutt’attorno

I hear a voice so profound                                    Odo una voce dal profondo

 

I walk on clouds I have never seen                        Passeggio su nubi che non ho mai visto

I swim in oceans that don't exist                            Nuoto in oceani che non esistono

I smell flowers I have never picked                       Annuso fiori che non ho mai colto

The world within me has                                        Il mondo dentro me tiene

Your face your shape your smell                            Il tuo volto la tua forma il tuo profumo

 

I locked the silence in my heart                             Ho rinchiuso il silenzio nel mio cuore

I am afraid to let it go                                           Ho paura di lasciarlo andare

To lose the treasure I have hidden                         Perdere il tesoro che ho nascosto

Don’t touch that key it holds my fears                  Non toccar quella chiave tiene le mie                                                                                                                                                                                                    paure

My happiness my tears                                        La mia felicità le mie lagrime

 

I walk on streets never known                               Passeggio su strade mai conosciute

I cross bridges not yet built                                  Attraverso ponti non ancora costruiti

I sing of loves I have never found                         Canto amori che non ho mai trovato

As I climbed mountains to the top I find               Mentre scalo montagne fin in cima trovo

Your face your shape your smell                           Il tuo volto la tua forma il tuo profumo

 

© Andrea Guiati and Celeste Varetto 2021



Can’t Fight Me Love                                  Non posso combattere l'amore                                                                                                                                                         

At last I made up my mind                          Finalmente ho deciso che

I’ll try my luck with your kind                   Ci provo con una come te

With moonlight eyes silk-like skin              Occhi di luna pelle di seta

You were the twin for me to win                 La mia gemella la mia metà

                                             

Will you come back this way?                    Ritornerai mai qui intorno?

Will you stay one more day?                      Puoi stare ancora un giorno?

Why are you goin’ away?                           Perché te ne vuoi andare?

Why not take a chance and stay?                 Perché non rischiare e restare?

 

Mystical woman at the county fair              Mistica donna alla fiera del villaggio

Men and women sigh and stare                   Uomini e donne sospirano al miraggio

Everyone dreamin’ to hold you tight           Sognan tutti di stringerti fortemente

Couldn’t fight love at first sight                   Combattendo l’amore inutilmente

 

Will you come back this way?                    Ritornerai mai qui intorno?

Will you stay one more day?                      Puoi stare ancora un giorno?

Why are you goin’ away?                           Perché te ne vuoi andare?

Why not take a chance and stay?                 Perché non rischiare e restare?

 

I feel the love and all its powers                 L’amore ha il soppravvento

Sleepless in the midnight hours                  Insonne sicuro del suo portento

Standing all alone in the rain                      Solo solingo sotto la pioggia

Looking for comfort to my pain                 Senza saper dove il dolore poggia

 

Will you come back this way?                    Ritornerai mai qui intorno?

Will you stay one more day?                      Puoi stare ancora un giorno?

Why are you goin’ away?                           Perché te ne vuoi andare?

Why not take a chance and stay?                 Perché non rischiare e restare?

 

© Andrea Guiati  and Celeste Varetto 2021

 


sabato 5 giugno 2021

DUE POESIE

 di Franco Zangrilli


Ogni giorno


Ogni giorno dispero,
non trovo un pensiero,
né un nuovo sentiero.


La penna non porta aiuto,
non si riscalda la mano,
maestra di ogni rifiuto.


Quella luna non si vede,
fa perdere la fede,
non so chi ci crede.





Una volta a Manhattan


Una volta a Manhattan c’era
una peste gialla,
non si pensava a un’altra primavera.

Le maschere erano amiche,
ornate di ogni disegno e colore,
indossate da inquiete formiche.

Da un alberò arrivo un miracolo,
una pietra sorrise,
i manichini spiccarono il volo.





 

venerdì 4 giugno 2021

A SPASSO NEL PASSATO E NEL PRESENTE DELLA GRANDE STORIA DI GENOVA

di Benito Poggio

Raffinatissime e assai ben motivate, tanto la dotta e più concisa “Prefazione”, che si deve al puntiglio culturale e alla vasta erudizione di Rosa Elisa Giangoia, affermata poetessa e saggista, quanto l’estesa e approfondita “Nota di lettura”, alla quale si è dedicato con pregevole impegno e assiduo fervore Stefano Termanini, editore dalle notevoli capacità critiche di commentatore.
E sono proprio esse, intendo “Prefazione” e “Nota di lettura”, che danno enfasi particolare e speciale valore risalendo nei suoi tratti più singolari l’opera “Le antiche mura” di Rita Parodi Pizzorno.
Lei che dice di sé “amo essere in solitudine” (I, v. 112, pag. 19) e vivere “far from the madding crowd”, compare qui

– “segregata all’ombra
delle mura di casa” –

nell’inconsueta veste di medievale “ménestrel” (o cantastorie), dedita a recitare e cantare il suo encomiastico poemetto protratto con disinvolta e arguta grazia.
Spiegazione illuminata è quella offerta da Termanini per il titolo: a suo dire, esso delimita e indica con persuasiva certezza “il perimetro difensivo della città antica, il cuore, l’essenza, l’identità di Genova” (pag. 87).
Nella sua “Prefazione”, con estrema e rigorosa chiarezza, la prefatrice Rosa Elisa Giangoia puntualizza dell’autrice la capacità creativa di “una geografia del possibile che amplia tutte quelle che sono le nostre prerogative abituali, infrangendo confini e superando distanze” (pag. 5); quindi rintraccia come nei versi della Pizzorno “la città di Genova si carichi di una forza storica e umana dirompente e diventi luogo di esperienze fondanti dell’esistenza umana” (pagg. 6-7) di grandi personaggi del passato e del presente, ma anche della sua personale; conclude, infine, affermando e sostenendo che proprio per tali motivazioni “il poemetto Le antiche mura appare come un motivato e valido omaggio a Genova, ma anche – e mi trovo d’accordo – come un fiducioso auspicio” (pag. 9).
Termanini nella sua “Nota di lettura” ripensa, se non tutti, almeno magna pars dei contenuti del poemetto e, meritoriamente, ripercorre all’unisono la davvero copiosa attività letteraria, in prosa e in poesia, della Pizzorno.
Inoltre, e segnatamente lo colgo come pregio critico-ecdotico, pone l’accento, oltre che sui binomi speculativo-concettuali “movimento-viaggio” (tipico topos pizzorniano) e “lentezza-meditazione poetica”, sull’interessante punto di vista “prigionia-assenza” connesso al covid 19, che per la nostra autrice – qui sta il punto di estrema verità – da status sommamente negativo e dannoso si fa circostanza positiva e felice.
Non manca di riportare a riprova quanto segue: “L’assenza della gioia del libero godimento della propria città, perché reclusi a causa della pandemìa, è, per converso, quasi un’occasione.” (pag. 81) e prosegue nei seguenti termini di veridicità: “Rita Parodi Pizzorno la coglie: per riscoprire la profondità delle proprie radici, l’intimo legame con il «suolo natìo»” (ib.).
E vengo ora direttamente all’autrice, Rita Parodi Pizzorno, la quale, instancabile nel suo lavoro di scrittrice al pari di tante altre “personalità ispirate e creative”, non s’è lasciata affatto sopraffare da “un ospite indesiderato” (I, v. 549, pag. 41): il covid 19, dilagante ovunque a diffondere “l’angoscia, lo sgomento” (ib., v. 550), ma ha reagito con la sua mente e nella sua mente percorrendo a passo talvolta affaticato ma sicuro e a voce spiegata – come l’antico trovatore – un diffuso, affascinante e inarrestabile viaggio nel tempo e fuori del tempo, lungo le secolari vicende che costituiscono la grande storia della sua città natale, la superba Genova circoscritta tra

“le antiche mura di pietra
annerite dai secoli”
(I, vv. 1-2, pag. 13),

unendo e inserendo passim il vissuto delle sue personali esperienze di vita giovanile.
D’acchito ho pensato altresì all’albionica Virginia Woolf e alla sua “A Room of One’s Own” (“Una stanza tutta per sé) che, in tempi forse, sotto tanti aspetti, ancor più misogini di quelli odierni, a ragione propugnava “a woman must have… a room of her own”: a intendere che la donna scrittrice, come ogni singola donna, ha l’inalienabile e sacrosanto diritto di avere, oltre ad altre sue personalissime cose, in ispecie una stanza tutta sua e solamente sua, adibita a “locus amoenus” ad altri impenetrabile.
Ed io – seduta alla sua scrivania e tutta intenta alla sua composizione – la vedo la nostra scrittrice riempire fogli su fogli di pensieri espressi in versi liberi, accurati e non privi di cadenzata musicalità, che diventano corposa narrazione e descrizione di fatti storici misti, come detto, alle evenienze della sua vita: il tutto cantato e narrato non in successione cronologica, bensì senza un ordine o un assetto prestabilito.
Tuffata, nel suo “grand tour” mentale, in una storia globale e onnicomprensiva la poetessa aspira a cantare e raccontare “per versi”, fluidi e distesi, un lunghissimo viaggio che ha, se si vuole delinearlo altrimenti, l’andamento di un altrettanto lunghissimo “daydream”, vale a dire un sogno ad occhi aperti fantastico e realistico insieme, fantasioso e in una concreto, sollecitato dall’isolamento coatto e timoroso, a proposito del quale l’autrice così si esprime:

“Mi rifugio nel mio passeggio
immaginario e misterioso
per non incontrarmi
con un ospite indesiderato”
(I, vv. 546-549, pag. 41)

e, al pari e sulle orme – peraltro citato a pag. 17 – dell’annalista Caffaro, ma qui in versi, naviga a vista, ma sicura tra le secche di una millenaria realtà storica, storicamente accertata e storicamente indagata dal più lontano ieri a lei suggerito mentre “a passo lento e affaticato” ((I, v. 168, pag. 22) sale i viali alberati dell’Ospedale San Martino, sulle cui alture, così prosegue nella narrazione:

“sorge solitario e ombroso
il castello di Simone Boccanegra,
presenza metafisica
del primo doge di Genova.”
(I, vv. 177-180, pag. 22)

al più recente oggi in cui con acre dolore rammenta l’amara tragedia del ponte Morandi che ha provocato ben 43 vittime innocenti e che mi piace qui riportare nella sua crudezza a cui l’autrice porge nel contempo fredda analisi e sapore preromantico:

“Era un’alba grigia e nebbiosa,
una tempesta di pioggia e fulmini
imperversava al nostro risveglio…
quando il ponte Morandi crollò.
Increduli si guardava quel vuoto:
“Impossibile!”
Afflitti ma non vinti...”
(I, vv. 113-119, pag. 19)

La cronaca poematica della Pizzorno, in cui si succedono senza sosta e senza soluzione di continuità fatti tutt’altro che oscuri, personaggi illustri e significativi momenti della sua vita più personale, comprende quasi milleduecento versi (1.196 per la precisione), suddivisi in due sezioni:
*più ampia la prima sezione che, sviluppandosi da pagina 13 a pagina 50, conta ben 715 versi;
*più contenuta la seconda sezione che si estende da pagina 51 a pagina 76 e annovera 481 versi.
L’andamento calmo e solenne di cantabile, piano e discorsivo nell’eloquio, risulta di facile presa e di immediata lettura riuscendo a dar vita e con linea garbata a favorire una piacevole e totale immersione nelle vicende storiche del passato e del presente ivi narrate con sincerità d’animo e senso di convinta e orgogliosa identificazione con la storia: si veda, ad esempio, l’insistenza anaforica del possessivo nei sette versi che si leggono a pagina 45 e che la completano.
A questo punto sono spinto a evocare, non solo “dalla cintola in su”, ma in tutta la loro possanza e possente immagine, storiche e potenti figure che emergono drammaticamente ed energicamente:
- da un lato ecco gli sfortunati e sconfitti Gian Luigi Fieschi e il figlio Giannettino, entrambi

“immolati sull’ara del sacrificio
da una congiura funesta”
(I, vv. 233-234, pag. 25)

- dall’altro, volitivo e grave, s’impone “il principe-ammiraglio” (ib. v. 237, pag. 25) Andrea Doria (perché non D’Oria?) dalla “forte tempra” (ib, v. 225, pag. 24), del quale, nominato “Padre e Difensore della Patria”, la scrittrice non solo sa cogliere dal noto ritratto “l’espressione grave” (ib.) e “una ferrea volontà” (ib.), ma altresì ne riferisce come segue:

“Difese la città:
represse le congiure,
compiute le vendette,
si conquistò
l’appoggio dei Genovesi."
(I, vv. 227-231, pagg. 24-25)

aggiungendo che, scoperto il complotto,

“La repressione di Andrea fu cruenta:
la confisca dei feudi,
la condanna dei congiurati,
l’assedio del castello di Montoggio
distrutto per sempre.”
(ib., vv. 242-246, pag. 25)

La medesima repressione e la medesima distruzione da parte del filospagnolo anniraglio subirà la filofrancese Savona che, arresasi dopo lungo assedio, una volta sottomessasi subirà l’onta di vedere il suo porto irreparabilmente interrato e annientato.
All’autrice tanto nome non può non richiamare però l’infausto e luttuoso episodio, nel 1956, del subitaneo affondamento del transatlantico “Andrea D’Oria, regina dei mari” (ib., v. 259, pag. 26) che “Ora giace in fondo all’oceano” (ib., v. 263), ribadito con partecipato dolore da chi ne vide il varo: “Ora giaci in un profondo abisso” (II, v. 349, pag. 69).
E nel proseguimento del suo convincente storico resoconto ecco, con tutta la sua fascinosa cronistoria di ospitalità,

“La Commenda si svela improvvisa
solenne nel suo triplice loggiato”
(ib, vv. 331-332, pag. 29)

Ma per chi voglia rileggerla, in “Nota di lettura” – ne indicherò alcuni – si toccano svariati altri segnali presenti nel poemetto e meritevoli di nota perché dell’autrice sanciscono memoria poetico-narrativa e capacità di connubio “tale da rendere il passato presente” (pag. 103).
Essi sono
- “la città in salita” (pag. 100) di tinta caproniana con le sue “tortuose salite e ripide scalinate” (II, v. 3, pag. 51);
- il richiamo a “viaggiatori, scrittori e poeti che visitarono Genova (e la Liguria)” (ib.): ad essi e a Genova dedicò più d’una pubblicazione lo scrittore e saggista Giuseppe Marcenaro, citato in nota a pag. 105;
- il porto ove le gru ormai disoccupate (pag. 101) agli occhi della poetessa appaiono “braccia tese al cielo” (II, v. 50, pag. 53);
- la spiaggia e il mare d’antàn della Foce nelle cui acque, foscolianamente, giacque il corpo dell’autrice (pag. 102), allora ancora “acerba ninfa” (II, v. 114, pag. 57);
- Staglieno rievocato anche da E.L. Masters, all’interno della sua “Spoon River Anthology” (pag. 104), come il “Camposanto” par excellence, di cui l’autrice offre note estese e precise (pag. 59 e sgg.);
- il Bisagno delle disastrose alluvioni, per lei “furioso color del fango” (II, v. 259, pag. 64), già visto, indovinato e descritto in tali termini anche da Stendhal (pag. 105);
- “l’antica abbazia di San Giuliano” (II, v. 403, pag.73): valeva forse la pena ricordare che vide la presenza e fu rifugio di un Guido Gozzano in cerca di sollievo fisico e di pace interiore (pag. 107).
Serpeggia, celato nell’opera, anche il rimpianto per la perduta età della propria giovanezza: rimpianto posto in essere e in evidenza nella chiusa terminiana e che si fa cogente necessità, specie coll’avanzare dell’età di ognuno, della riappropriazione del tempo trascorso.
E molti altri ancora sarebbero i loci poematici toccati tanto in “Prefazione” dalla Giangoia quanto in “Nota di lettura” da Termanini: indubbiamente varrebbe la pena citarli tutti, ma son certo che saprà coglierli il lettore a sue spese, tuffandosi a capofitto nella lettura di “Le antiche mura”.
E che aggiungere, in chiusura, a proposito delle magiche e selezionate illustrazioni, una decina scarsa?
Esse, che hanno lo stesso colore annerito della pietra delle antiche e solide mura genovesi, si devono all’artistica e ricercata matita di Elisabetta Sacchi Nemours.
Con le loro linee decise e marcate sgorgano dalle pagine e le stipano con la forza invadente propria di magistrali incisioni suggestivamente descritte e dettagliatamente delineate nei minimi particolari, ricreando de visu costruzioni, edifici, portici, monumenti e altro ancora, a ideale e malioso contorno dei versi distesamente cantati dall’autrice.
Un’ultima annotazione merita l’accurata e luminosa prima di copertina che riporta la vigorosa immagine di “San Giorgio/mentre trafigge il drago” (I, vv. 591-592, pag. 43), il cui abile restauro lo si deve a Raimondo Sirotti scomparso di recente.

*RITA PARODI PIZZORNO, Le antiche mura. Prefazione di Rosa Elisa Giangoia. Nota di lettura di Stefano Termanini. Disegni di Elisabetta Sacchi Nemours. Serel International, Genova, Stefano Termanini Editore, 2021, pp. 108, € 12,00.


mercoledì 2 giugno 2021

RECENSIONE

 


UNA VITA PER LA SCUOLA

Rosa Elisa Giangoia


Viene un momento della vita in cui si sente la necessità di guardare indietro, di riconsiderare tutto quello che abbiamo vissuto, non solo per farne una valutazione, ma quasi per riappropriarsene e riviverlo proustianamente attraverso le parole, tanto che ne rimanga memoria, non solo per gli altri, anche per se stessi. Questo capita sovente nell’occasione agro-dolce del pensionamento, quando si vive il distacco dal mondo del lavoro, in modo ambiguo, un po’ come liberazione da un impegno, ma anche come perdita di tante cose, tra cui talvolta pure di quel potere che magari si è riusciti a raggiungere con tanto impegno e che si vede improvvisamente sfumare, come De Sica in un film famoso…
Queste sono state indubbiamente le sensazioni che hanno indotto Renato Dellepiane a ripercorrere con il ricordo e con la penna la sua vita nel momento della conclusione della sua lunga carriera scolastica con il pensionamento da un liceo genovese. Il distacco dalla scuola è stato certo un momento incisivo nella sua vita, come per molti di noi insegnanti, che non abbiamo conosciuto altri ambiti di lavoro e di vita, soprattutto noi di una generazione che sovente siamo ri-entrati a scuola proprio il giorno dopo esserci laureati, se non già qualche mese prima, come Dellepiane, passando rapidamente dall’altra parte della cattedra!
Nelle pagine di questo libro, attraverso il recupero memoriale dell’autore, viene fuori tutta la storia della scuola italiana e dei suoi rapporti con la società dagli anni difficili del dopoguerra fino agli inizi del nuovo millennio. Un lungo periodo in cui la scuola ha subito la sua più profonda trasformazione con l’aprirsi progressivamente, ma velocemente, a tutti, il che è stato senz’altro positivo, ma nello stesso tempo ha messo in evidenza tanti problemi derivanti dall’aver mantenuto nelle superiori l’assetto gentiliano, a cui il succedersi di riforme per lo più parziali, non sufficientemente sperimentate e verificate, anche per il turbinio di Ministri succedutisi in quel dicastero, non ha permesso di adattarsi per rispondere pienamente alle nuove esigenze.
Tutto questo ha osservato l’occhio attento di Renato Dellepiane, scolaro, studente, docente e preside, già dotato fin dagli anni giovanili di un vivo senso critico che si è venuto affinando negli anni per il suo intenso e appassionato dedicarsi allo studio e all’insegnamento, per cui la capacità di valutazione si è acuita con l’esperienza nella pratica quotidiana.
Il racconto si fa particolareggiando con riferimenti a tanti episodi di vita, sempre significativi, che rivelano l’impegno di Renato Dellepiane professore e preside, attento alle varie situazioni che si sono venute a creare nella scuola, sempre disponibile con i suoi studenti, che l’hanno ricambiato e continuano a farlo, con apprezzamento e affetto. Ma la scuola è una comunità, una comunità educante, in cui i docenti non sempre si trovano in sintonia tra di loro nei metodi e nelle valutazioni, per cui anche per Dellepiane ci sono state occasioni di incomprensioni e attriti di cui parla con molta sincerità, ma anche con l’onestà e la sicurezza di aver sempre cercato di agire per il bene degli studenti, senza aprioristiche difese di corporativismo professionale.
Nel racconto si delinea la figura di un docente e soprattutto di un preside a cui le tante incombenze organizzative e burocratiche non hanno spento la passione per lo studio, per la lettura, in quanto emerge sempre il letterato, come testimonia l’essersi dedicato, con due validi amici, alla stesura di un manuale di storia e antologia della Letteratura Italiana per le scuole superiori, in quegli anni in cui si era veramente alla ricerca di nuove metodologie per le singole discipline, e come appare anche in questo libro per il costante contrappunto tra episodi, riflessioni, argomentazioni e memorie letterarie, sempre scelte in modo estremamente appropriato e con finezza di gusto.
Le vicende, pur sempre vive, si allontanano nel tempo, emerge qualche dubbio, qualche rimpianto, a conforto c’è la coscienza di aver sempre operato con le migliori finalità e il perpetuarsi di molti rapporti di solidarietà amicale, forse il meglio, insieme agli affetti familiare che possa avere una persona come Renato Dellepiane la cui vita è stata tutta “dentro” la scuola, in modo totalizzante, tanto che con
sincerità e aperta confidenza parla anche delle sue vicende familiari e sentimentali, anche queste vissute nel mondo della scuola, quasi testimonianza di un’incapacità psicologica a uscire dall’ambito di vita prescelto.
Il libro si rivela una narrazione avvincente come un romanzo, anche se chi legge avverte verità e sincerità da parte dell’autore, senza finzioni né fantasie, ma al tempo stesso attraverso queste pagine si rivede la nostra storia recente tramite l’occhio di un osservatore dall’intelligente senso critico, per cui si è indotti a soffermarsi a riflettere, per confrontarsi con le sue posizioni e approfondire molte questioni.

RENATO DELLEPIANE, Vita di scuola. Scuola di vita, Genova, De Ferrari Editore, 2021, pp. 356, € 18,00.

domenica 30 maggio 2021

DUE POESIA

 di Luigi PICCHI

Ad Ettore Cozzani

 

I

 

Per anni hai ascoltato

il Mare, la sua anima

ora furiosa ora quieta,

e per anni come un vecchio

marinaio hai affrontato

le sue onde, interrogando

rocce, isole, fauna e flora.

Ora tutte queste voci

sono custodite nello

scrigno del tuo poema

e, se lo sfoglio, sento

il vento, la risacca,

vedo le falesie

e le sirene

invoco.

 

II

 

Muse della Tradizione

e voi, Muse della Modernità,

sempre Muse dell’Eternità,

restituite al Mare, ai liguri

abissi, alle vertiginose falesie,

alle più arcane profondità

la salma del poeta che cantò

la potente Bellezza del mondo,

l’Uomo e la Natura, la loro

lotta, la loro unione.

Tra i coralli è la sua degna

tomba, assieme ai molti

che al mare si consacrarono

fino a morirci.

 

Tutte le creature marine

rendano onore a chi cantò

non solo le meraviglie

della flora e della fauna

sommerse, ma pure il piroscafo

e il sottomarino e nel Mare

il simbolo dell’Energia cosmica.

Ora il suo Poema né stelle

né onde potranno mai

dimenticare.

martedì 20 aprile 2021

RECENSIONE


Rosa Elisa Giangoia

Rosa Maria Corti ha imparato la grande arte del viaggiare realmente e del viaggiare nel tempo, di viaggiare con il corpo, ma anche e soprattutto con la mente e con lo spirito, riappropriandosi con sensibilità e cultura di mondi perduti. Lo dice lei stessa nell’Introduzione a cura dell’autore del suo recente Viaggio poetico tra case e anime di scrittori, pensatori e artisti. Infatti, dopo aver accennato alle emozioni provate tanti anni fa nel visitare il monastero del Monte degli Angeli nel borgo di Certosa in Val Senales, aggiunge: «Da allora, respirare la stessa aria, guardare il mondo dalla stessa prospettiva, conoscere vecchie e nuove storie, ma soprattutto lasciarsi colpire dall’imprevedibile, è diventato il 
movente che mi ha spinto a visitare altri edifici, in particolare le case di scrittori, pensatori, artisti e uomini al di fuori del comune, in una sorta di pellegrinaggio della suggestione».
Lei ha acquisito la capacità di percepire le voci dei luoghi dove persone eccezionali sono vissute in sintonia con un ambiente che di solito avevano scelto per un’intima, profonda consonanza, in un 
mistero di rispondenze che dura nel tempo e che altre persone di acuta sensibilità sanno percepire ed esprimere nella forma intensamente suggestiva della poesia.
Di solito sono luoghi particolarmente ameni, ma che nello stesso tempo si arricchiscono rifrangendo la bellezza umana e intellettuale di chi li ha abitati. Da queste esperienze sono nati i “viaggi poetici” di Rosa Maria Corti attraverso luoghi di cui lei ha colto la “poeticità” insita, ma arricchita dall’essere stati abitati da chi quella stessa poeticità l’aveva colta ed espressa in forme artistiche diverse, una poeticità che Rosa Maria ha poi ricreato con i suoi versi.
Molti e diversi sono i personaggi che animano le pagine di questo libro, la cui figura sbalza sullo sfondo del paesaggio che li ha visti vivere. Un lungo, ma interessante elenco: Maria Corti (Pellio Inferiore), Jean Giono (Manosque), Peter Mayle (Louberon), Alberto Casiraghi (Osnago), Hermann Hesse (Montagnola), Pierre CRDIN (Théoule-sur-Mer), Italo Calvino (Sanremo), Colette (Baie des Canebiers), Pierre-Auguste Renoir (Cagnes-sur-Mer), Reinhold Messner (Castel Juval), Giovanni Segantini (Maloja), Alexandra David-Nèel), Friedrich Nietzsche (Sils-Maria), Gabriele d’Annunzio (Gardone), Francesco Petrarca (Arquà), Antonio Fogazzaro (Oria in Valsolda), Maestro Martino (Grumo), Mario Tosatto (Tremezzina), Tarcisio Trenta (Giubiasco), Antonia Pozza (Pasturo), Pablo Picasso (Antibes), Alberto Giacometti (Borgonovo), Pietro Solari (Verna), Martino Giovannettina (Foroglio), Gianmario Lucini (Piateda), Willi Inauen e sua moglie Maddalena (Doragno), Cesare Pavese (Santo Stefano Belbo).
Personaggi e luoghi diversi, in alcuni casi, ormai consolidate mete di turismo culturale (e scolastico), come Gardone, Arquà, Santo Stefano Belbo, Maloja, altri, del tutto sconosciuti e, quindi, portati opportunamente alla ribalta dell’attenzione dalle pagine della Corti, in questo spaziare tra Italia, soprattutto Settentrionale, Francia, Svizzera e Austria, un mondo prevalentemente di montagna, con qualche puntata sul Mediterraneo.
A ognuno di questi personaggi Rosa Maria Corti ha dedicato una poesia, un breve profilo in riferimento al luogo e alla casa, qualche volta anche una foto. Case molto diverse, da quella con il fascino delle villeggiature d’altri tempi di Maria Corti a Pellio d’Intelvi, all’avveniristico Palais Bulles di Pierre Cardin, dal castello medievale di Messner, al palazzo settecentesca di Antonia Pozzi a Pasturo, alla casa un po’ anonima di Nietzsche a Sils. Tutte, però, residenze molto amate, sentite da chi le ha abitate come consone al proprio spirito, come proiezione del proprio mondo interiore, case non anonime, non casuali, quindi case “parlanti”, capaci di far sentire la voce di chi le ha amate nei giorni del suo vivere.
Fra tutte le poesie scelgo di condividerne con i lettori alcune che riguardano case che ho visitato anch’io, di personaggi che mi sono particolarmente cari.
Innanzitutto Italo Calvino che condivide con Eugenio Montale, in Liguria, il triste destino che la sua casa a Sanremo, causa la tanto da lui deprecata speculazione edilizia, sia stata suddivisa in piccoli appartamenti, come appunto “la casa delle due palme” a Monterosso, protagonista di tante liriche di Montale:

D’int’ubagu
La casa sull’albero o gli alberi sulle case?
Al nostro confuso desiderio di natura
risponde la moda dei giardini verticali,
dei quadri vegetali, la casa-pigna,
il rifugio luminoso a nido d’uccello
che al sommo di un ponte traballante
offre un letto-nave davvero stravagante.
Idea di convivenza oggi costosa
che riduce la natura a strana cosa.

E poi voglio proporre la lettura della poesia dedicata alla casa «piccola, decorosa e nobile» di Francesco Petrarca ad Arquà che la poetessa apparenta a quella che tutti immaginiamo ci sia stata anche a Valchiusa, dove oggi troppa paccottiglia turistica disturba l’armoniosa musicalità delle «chiare, fresche e dolci acque»:

Arquà come Valchiusa
Lontana la città
con i suoi frastuoni,
la vita nel brolo
è brodo di giuggiole.
Nel viridarium torna la memoria
di chiare, fresche e dolci acque,
di lauri, di liberi capelli.
La gatta, intanto, ancora difende
gli amati libri, le stampe
di Valchiusa e d’Avignone.


Rosa Maria Corti, VIAGGIO POETICO tra case e anime di scrittori, pensatori e artisti, Montedit, Melegnano (MI), 2021, pp. 91, € 10,00.  



sabato 20 marzo 2021

RECENSIONE



Rosa Elisa Giangoia


Forse non sono la persona più adatta per scrivere su questo romanzo che ha il suo nucleo generativo nei rapporti che si creano in famiglia tra fratelli, perché io sono figlia unica e non ho neppure avuto figli, per cui non ho nessuna esperienza personale delle dinamiche psicologiche che si creano in ambiti familiari complessi. Ho sempre sentito, però, una sottile, ma forte, invidia per tutti coloro che vivevano in famiglie numerose. Purtroppo non è stato il mio destino!
Penso che i rapporti di relazioni interpersonali di sangue non si possano comprendere pienamente se non si vivono, se non si sperimentano nelle loro sfaccettature e implicazioni, che talvolta diventano … complicazioni, ma che hanno una loro profonda naturale motivazione.
Si parla molto oggi di “fratellanza” in senso ampiamente umano, ma credo rimanga sempre qualcosa che si vive in una condizione di astrazione volontaristica. Non ritengo sia possibile vivere con consapevole pienezza relazioni in un “come se” voluto e costruito, in cui la finzione vorrebbe ri-creare la realtà.
La finzione si crea solo con la fantasia e l’immaginazione e appunto su queste basi Gabriella Paola Zurli ha creato il romanzo La maison qui touche aux bois, incentrato su una comunanza di fraternità tra sei persone, nell’età tra l’infanzia e l’adolescenza, in una situazione di assenza genitoriale. Direi un esperimento… in vitro “letterario”.
Presumo che l’intento della scrittrice sia stato quello di individuare una possibile situazione di co-educazione tra fratelli, nel crescere insieme con grandi responsabilità per ciascuno nei confronti di se stesso, ma anche gli uni per gli altri.
Questa situazione, qui frutto di fantasia, diventa particolarmente interessante in rapporto a molte realtà attuali, in cui si vengono con sempre maggior frequenza a creare assenze di genitori per motivi diversi, come ha potuto senz’altro verificare chi ha insegnato per tanti anni, come me e come l’autrice. In particolare qui sembra si voglia evidenziare il problema dell’assenza del padre, per incapacità personale di un soggetto a ricoprire questo ruolo con consapevolezza e responsabilità.
Anche se la vicenda è ambientata qualche decennio fa, si colgono gli inizi di problemi che in seguito non si sono certo risolti, ma semmai accentuati.
Ecco così la storia di quattro sorelle e due fratelli che si ritrovano a dover far fronte all’improvvisa tragica morte della madre, che rimarrà sempre amata e venerata, e al disinteresse nei loro confronti da parte del padre, persona anaffettiva, priva di senso paterno, chiuso nell’egocentrismo della sua vita con una nuova compagna, donna banale e superficiale.
Protagonisti sono quindi i sei ragazzi che crescono in una speciale situazione di coeducazione interpersonale collaborativa, sostenuta da profondi reciproci legami d’affetto. Le vicende che si susseguono in questo ampio romanzo sono tante, in un arco temporale di due decenni e in uno spaziare geografico che dal piccolo paese sull’Appennino Ligure, alle spalle di Genova, spazia dal capoluogo a Parigi, ad altre località dell’Europa e oltre Oceano.
Dalla casa ai margini del bosco gli orizzonti e le aspirazioni dei ragazzi si ampliano tra le realizzazioni delle aspirazioni artistiche di alcuni, le avventure, le disavventure e gli errori di altri. Ne viene fuori un panorama esistenziale variegato, con svolte imprevedibili, com’è di fatto la vita, in uno sviluppo dell’intreccio incalzante in cui i legami d’affetto tra i fratelli arrivano ad un punto in cui sembrerebbero allentarsi fino ad entrare in crisi, per poi risalire verso un assestamento psicologico di piena maturità e una riorganizzazione della vita in condizioni di armonia e di collaborazione.
Tutta la storia di questi ragazzi sembra voler dimostrare una grande fiducia nei giovani e, in definitiva, nella natura umana, capace di autoeducarsi e autoregolarsi, anche con possibilità di recupero di fronte a momenti di caduta, grazie agli aiuti che possono venire nella solidità affettiva della famiglia.
Il risultato è una narrazione tenuta saldamente in mano dall’abilità dell’autrice, nella complessità dei protagonisti e nella pluralità delle vicende, che si snoda in un intreccio ben costruito, con tratteggio psicologico dei personaggi, buona tenuta dei dialoghi, tutto sempre in un linguaggio controllato e curato, efficacemente espressivo. Il romanzo risulta, quindi, una lettura avvincente e coinvolgente, capace di stabilire un solido patto con il lettore fin dalle prime pagine e di non deluderlo mai, fino all’ultima riga.

Gabriella Paola ZURLI, La maison qui touche aux bois, Asola (MN), Gilgamesh Edizioni, 2020, pp. 794, € 23,00.





martedì 16 marzo 2021

RECENSIONE


 FRANCO ZANGRILLI

Antonio Franchini, Il vecchio lottatore e altri racconti postmingueiani, Milano, Enne Enne Editore, 2020, pp. 253,  € 17.00


    Da Boccaccio in poi la ricca tradizione novellistica si è rinnovata a tutti i livelli: strutturale, narratologico, formale, tematico, ecc. A ciò hanno contribuito significativamente parecchi scrittori contemporanei. Basterebbe pensare a Pirandello che con un mazzo delle Novelle per un anno crea l’anti-racconto parecchi anni prima di Jorge Luis Borges; a Tozzi che con il raccontino-frammento di Bestie svela il carattere di una poetica che non scinde il mondo immaginario (della letteratura) da quello reale (dell’esistenza di ogni giorno); a prosatori rondisti che con la prosa d’arte hanno dato luce a storie che sono veri e propri petites poèmes en prose, come per esempio fanno notare i Pesci rossi di Emilio Cecchi. E non si può dimenticare il Pavese che nei Dialoghi con Leucò riscrive in chiave postmoderna un fascio di miti classici soprattutto del mondo greco; il Vittorini che in Nome e lagrime stende storielle ermetiche che riguardano temi di varia natura, compreso quello della meta-scrittura; il Bonaviri che ne L’infinito lunare e nelle Novelle saracene presenta racconti mitico-cosmici di una Sicilia trasformata in ombelico dell’universo. Né vanno dimenticati tanti altri scrittori, provenienti da generazioni, da formazioni, e da ispirazioni differenti (Buzzati, Landolfi, Gadda, Cassola, Sciascia, Tabucchi, ecc.) che con originalità si sono dedicati a coltivare i generi del racconto. Questo atteggiamento di rinnovare il racconto vive anche tra gli scrittori postmoderni. Antonio Franchini ne è uno dei più illustri rappresentanti. Lo evidenzia anche Il vecchio lottatore e altri racconti postemingueiani.
    Il testo è composto di nove racconti che vanno dalle venti ad oltre le trenta pagine, e uno va oltre le sessanta pagine. Sono racconti stesi in un arco di tempo piuttosto lungo. Sono racconti che si articolano con una struttura singole. Si avvalgono della narrazione non lineare, della tecnica espositiva dell’andirivieni, della frammentazione, della prolessi e dell’analessi, del micro testo nel macro testo, e dispiegano una portata diacronica e sincronica, centripeta e centrifuga, realistica e fantastica. Quasi ogni racconto dà l’impressione che sia il montaggio di un puzzle, che poi vuol essere uno stratagemma impiegato dall’autore per tenere il lettore impegnato a tessere la sequela delle scene, degli abbozzi, delle forme spezzettate, cioè a mettere insieme i tasselli-fili dell’orditura. Si tratta di una narrazione sperimentale. Essa a volte sembra essere senza connessioni, compie dei salti qua e là, e a un tratto si cuce in una tela armonica. Sovente vuol essere un’affabulazione animata dalla sospensione; dal piglio della divagazione, della digressione, e della elucubrazione; dalle movenze del joyciano stream of unconsciousness; dalle visioni storiche e astoriche, dal discorso sulla meta-scrittura, simbolo dell’arte in generale.
    La prosa di questi racconti si avvale di una lingua laconica, cristallina, e in sostanza la sua semplicità è  pregna di complessità. È ricca dei mezzi antifrastici e aforistico, delle immagini metaforiche e simboliche, dei ripiegamenti filosofici, degli sprazzi lirici. È contrassegnata dai dati autobiografici, dagli aspetti autoreferenziali e ontologici, dagli eventi sportivi, dagli avvenimenti dei ritmi quotidiani, dai risvolti riguardo all’arte dello scrivere, e dal discorso meta-letterario.
    Questa prosa ci mostra un Franchini scrittore postmoderno non solo perché riscrive miti e storie a suo mondo e in un nuovo contenuto, ma anche perché predilige la tecnica di raccontare all’insegna dell’ambiguità, di cimentarsi con i tipi diversi dei giochi diegetici, e eccolo che sfrutta la tecnica del dire non dicendo, dell’affermare una cosa e subito attestarne l’opposto, ed è persino molto abile nel manipolare una pluralità di toni dell’ironia, compresi quelli morali, sarcastici, e dissacratori.
    La maggior parte dei racconti presentano un io narrante-protagonista che è Franchini. E sono popolati da una sterminata folla di personaggi, parecchi appaino figure ritrattistiche e bozzettistiche. Essi in modo magico entrano e scompaiono dall’azione, ci sono quelli che riappaiono con frequenza, e quasi tutti sono la maschera dietro cui si nasconde l’autore, sono il suo alter ego portavoce dei miti personali e collettivi, sono i suoi centomila aspetti pirandelliani adulterati, specie delle sue esperienze di atleta e maestro delle arte marziali, delle sue ossessioni e dei suoi narcisismi, che sono i luoghi comuni degli artisti di ogni campo, per non dire degli scrittori postmoderni che fanno del tutto per apparire in ogni canale mediatico e in quelli dei social media.
    In vari racconti si trattano gli argomenti sociali ed intergenerazionali. Uno di esso si intitola “Le Leonardiadi”. Vi si raffigura un campo sportivo in cui i genitori accompagnano i figlioletti a compiere diversi tipi di gare, e non tutti riescono a trovare un parcheggio: un’azione denotativa di un problema sociale. E ci sono persino genitori che non hanno più l’energia di assistere i propri figli: “Ah, io quest’anno mi do il cambio con mia moglie, o oggi a me, domani a te! Non ho più il fisico per reggere tutti e due i giorni” (13). Infatti l’autore approfondisce il rapporto non sempre facile tra il mondo infantile e il mondo adulto, rapporto in cui si inseriscono motivi memoriali e temporali: “gli adulti ripetono spesso che mai tornerebbero all’infanzia, ma se i piccoli sapessero quando poco gli adulti sono capaci di discernere, non vedrebbero nel crescere alcun guadagno […] Questi giovani felici sfilano insieme agli anziani, ai vecchi, ai delusi e agli svuotati” (19, 23). Egli inscrive con uno stile allegorico che tutte le gare e tutte le attività agonistiche rappresentano la vita giornaliera dei tempi attuali composta di affannosi ritmi e movimenti, di frenetiche corse e lotte, e come se fosse dominata dalla legge della giungla: “i bambini di prima elementare [...], arrivavano disorientati e sfiniti, con grandi distacchi tra i gruppi e tra i singoli, come si fossero persi e non trovassero più la casa” (14). Nel campo sportivo c’è anche un parco in cui vecchi e giovani vanno in bici, corrono, camminano, si fermano a un bar a parlare di tanto cose e persino del malfunzionamento della sanità; ci sono quelli che si rinchiudono dentro una “caverna” a rifocillarsi, una scena che sembra demitizzare a una società arci-cibata.
    È davvero impressionate come in questo racconto, e in tanti altri della raccolta, Franchi si sbizzarrisca a portare a galla parecchi ricordi e i problemi che si stabiliscono tra i genitori e i figli. Lo fa pure combinando giochi di specchi, non solo identitari e metamorfici: allora si ha il figlio che rispecchia anche le fragilità del padre; il padre che ritorna fanciullo e il figlio bambino che diventa padre.
    In un gruppo di racconti Franchini rivive i miti letterari e li scrive con freschezza ed originalità, li ripresenta rinnovellati creando l’impressione che i lettori stiano a leggerli per la prima volta. E tra i tanti scrittori si fa dominante il mitologema di Hemingway. Nel racconto “Il suicidio dell’indiano” Franchini si rivela “un critico fantastico”, per dirla con Pirandello, riscrivendo il racconto hemingwayano “Camp di Marte”. Egli innanzitutto in maniera sintetica ne riassume la trama e discute del protagonista Nick Adams che “si taglia la gola perché non sopporta il dolore della moglie che partorisce” (179). Poi si chiede perché l’indiano si uccide e perché Hemingway non spiega il gesto estremo di Nick. Franchini imbastisce un discorso inquisitivo, dialettico, immaginoso. E si evince che tutto diventa un suo impellente bisogno di capire gli eventi enigmatici dell’individuo ed i riti di una cultura esotica, insomma di comprendere l’impossibile.
    Nel racconto “Non ho scopato con Heminway” Franchini figura come un rappresentante di una casa editrice che sta pubblicando un’autobiografia di una loro scrittrice. Un giorno egli si reca a casa della scrittrice con lo scopo di scegliere insieme delle foto da mettere nel testo autobiografico. Qui trova il marito della scrittrice e apprende che i coniugi si sono separati, dopo trent’anni di matrimonio. Grazie anche all’ironia sottile e pungente, il dialogo, evolvendosi, mette in risalto che i coniugi si sono separati perché a vicenda si tradivano e ora a vicenda si accusano, onde si impone la parlata della scrittrice: “quelle gli facevano i pompini, ecco perché se n’è andato […] E adesso tu vorrai sapere come tutti, se io ho scopato con Hemingway, ma io non ho scopato con Hemingway, sono sola stata sua amica” (170).
    Il vecchio lottatore vuol essere una raccolta di racconti affascinanti, tesi a rivelare il tragico e il comico, il pianto e il riso, e il messaggio che la vita è un mistero e come tale si deve vivere.