venerdì 24 novembre 2023

RECENSIONE

 


TEBE, ARCHETIPO DELLA MODERNITÀ

 Rosa Elisa Giangoia

 

     La nuova recente opera poetica di Donatella Bisutti Erano le ombre degli eroi è un poemetto davvero straordinario per complessità intellettuale e fantasia creativa, in quanto recupera un mito particolare della mitologia classica, quello delle origini, della storia e della caduta della città di Tebe, stabilendo rapporti storico-allusivi tra le tragiche vicende del tempo mitico e specifici avvenimenti della storia recente. Il mito emerge quindi in quella che è la sua caratteristica e dimensione propria di paradigma della vita umana per la particolare capacità che il mondo classico ha avuto, prima con il mito e poi con l’espressione letteraria e filosofica, di rappresentare e di dire tutto quello che, nel bene e nel male, è proprio dell’uomo.
     Il mito, però, per essere rivelatore, deve essere conosciuto a fondo. Per questo Donatella Bisutti correda il suo dire poetico con un ricco e accurato apparato di note in cui le figure e gli eventi mitologici vengono illustrati con riferimenti ai testi degli autori classici che ci hanno permesso di conoscerli e di altri successivi che li hanno approfonditi; si aggiungono, poi, i recuperi di fatti di cronaca, che evidenziano le consonanze con la storia recente.
Tutta la rievocazione della storia di Tebe si articola in scene, sapientemente tratteggiate in modo allusivo, articolandosi in una serie di atti, che danno plasticità al racconto.
La rievocazione della poetessa parte dalle lontane origini della città, da Cadmo che va in cerca della sorella Europa “bellissima / trasportata dal dio sopra i flutti / rapita lontano / nel luogo di un amore proibito e segreto” (p. 13). Di lei si è innamorato Zeus che, per averla, si è trasformato in “bianco toro” e l’ha rapita in quel prato fiorito, sempre insidioso per le fanciulle dei miti greci. Da lei nasce Minosse e ha inizio quella discendenza per cui sorse “una città / di ancora più grandi ignominie: Tebe”, una città che ha nelle sue stesse origini un destino negativo, “città dell’enigma e della guerra” (p. 27).
     Il viaggio di Cadmo prosegue con molti pericoli tra le “onde / azzurro-purpuree mediterranee”, mentre con preveggenza visionaria compaiono “i ventri gonfi degli annegati / nel cercare a nuoto una riva” (p. 15): sono i morti in mare di ieri, di oggi, di sempre, quelli che “si sforzano di intravvedere / le luci lontane di un porto / […] / senza bere né mangiare un ammasso di carne scura / alla deriva” (pp. 15-16). Sono tutti coloro che nella storia, come oggi, fuggono da situazioni di pericolo e di indigenza e cercano di raggiungere condizioni di vita migliori al di là di un mare che troppo spesso, purtroppo, diventa la loro tomba.
     Fin da queste prime vicende ai afferma la particolarità di questa narrazione-rievocazione del mito, intessuta in filigrana delle vicende dell’attualità a sottolineare la persistenza del male nella vita degli uomini, sempre pronto a riapparire in forme e circostanze diverse nella storia, ma sempre apportatore di dolorose sventure.
     Altre “collisioni” tra il mito e il presente avvengono con correlazioni in ambito artistico, così nell’Atto X Iperrealismo – Il Pene in cui “il Maschile di Cadmo” trova la sua piena raffigurazione nell’opera di una donna che la poetessa in nota precisa essere l’ “artista scozzese Gwen Hardie, residente s New York” p. 147): “Lei dipinge il corpo di un uomo / soltanto le natiche e il ventre / solo un pene – solo quello –” (p. 27) che diventa “un pugnale temibile” (p. 27), una “macchina da guerra in riposo” (p. 28).
     Quello di Tebe è un destino di lutti e di sciagure a seguito della maledizione di Pelope, a cui non possono sfuggire Laio, Edipo e Giocasta, nonostante le loro precauzioni e i loro tentativi di modificare il corso degli eventi: anche loro sono come gli uomini e le donne di sempre, di ieri e di oggi: “Giocasta è consapevole di preferire l’abominio / piuttosto che rinunciare al piacere” (p. 34) ed è come una qualunque donna che “si tagliò le vene” con un “coltello d’oro” che “aveva rubato / in una villa sulla spiaggia di Los Angeles / dove rifaceva i letti e lavava i pavimenti” (p. 37).
     Il poema procede in questo sempre ardito gioco di contrappunto tra passato e presente fino alla distruzione di Tebe nel 382 a.C., quando “Già più di due secoli prima / le grandi multinazionali / si erano spartite i latifondi” (p. 81). Tutto avvenne perché “In Beozia da tempo / non pioveva così incessantemente” (ibid.). Ma poi ci fu L’Arcobaleno e “scesero / come da una passerella luminosa / gli dei ridenti di luce / a guardare cos’era successo / al passaggio dell’uragano (p. 82). In seguito Tebe, come succede nelle città del recente passato e di oggi, “mentre tutti ballavamo Chopin / a un ritmo rock / bevendo campari e vodka” (p. 87) “per l’ennesima volta / veniva rasa al suolo / con bombardamenti a tappeto” (ibid.).
     Agli uomini restava solo la Bellezza del Giardino Incantato ma “venne un giorno un gigante” (p. 88) “Egli era la Violenza” (p. 89) che credette di distruggerla ma non vi riuscì. Così poté nascere La Città Nuova in cui Gli Schiavi, “scaricati da vecchi furgoni / […] / come animali portati al macello”, “stanno piegati sui campi / a raccogliere i frutti sacri della terra” (p. 93). Tutto fu diverso in questa nuova Tebe, simbolo delle moderne città del mondo: “venne un tempo / in cui l’acqua cessò di essere sacra. / L’acqua fu usata e sprecata / sporcata e gettata” (p. 97) e “Molti abitanti dei villaggi, / i più poveri, / migrarono attraverso il deserto / inseguendo il miraggio di una fonte (pp. 97-98). Ad imporsi furono Il Comandante e l’Impero che portarono Tebe ad essere “rasa al suolo” (p. 100), ma poi si scoprì L’Oro Nero, “un liquido scuro e vischioso / [che] a volte sgorga e si infiamma” (p. 101). A rovinare la vita degli abitanti di Tebe fu Il Cibo, quando iniziarono a onorare “Adefagìa, dea dell’ingordigia” (p. 103), per cui “mangiavano e ingrassavano / quasi tutti obesi, / quando camminavano / il loro ventre sopravanzava / il loro naso” (p. 105). E ci furono Stragi e dolori di Madri, ma a determinare l’annientamento della città furono I Rifiuti di Tebe che diventavano sempre di più, tanto che “formavano ormai una muraglia / che cingeva Tebe da ogni lato” (p. 117), “Finché un giorno Tebe, divenuta un’enorme discarica, / franò, seppellendo se stessa / nei suoi stessi rifiuti. / E la Terra, / finalmente, / cominciò a essere purificata” (p. 119).
     Ma il poema non si conclude con questa catastrofica visione profetica allusiva della nostra realtà.
     Anche se “Non ci sono più eroi / non c’è più neanche l’uomo” (p. 126), non saranno Gli Scienziati, a salvare il mondo, anche se pensano che “Dio ha fallito clamorosamente” (p. 131), in quanto la prospettiva della poetessa è nel Ritorno degli Dei, che agli uomini appaiono qualcosa di “disgustosamente dolce” (p. 136), ma che piace ai bambini nella loro fantasia aperta al futuro.
     Così si conclude questo poema di Donatella Bisutti, opera di alte e profonde valenze etiche, in cui le tematiche antiche diventano specchio e monito della nostra realtà, condotto con leggerezza e ironia in un susseguirsi di originalità creativa con versi di grande partecipazione emotiva per la consapevole attenzione alle esperienze umane e per l’alta considerazione della poesia, in quanto i poeti devono mirare alla verità, non essere coloro che “si baloccano con le parole” (p. 129).

DONATELLA BISUTTI, Erano le ombre degli eroi, Bagno a Ripoli (FI), Passigli Editore, 2023, pp. 200, € 19,50.



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