Una lettura che colpisce
Angelo e Samuele
sempre in noi e con noi
Esternazioni e considerazioni
personali e senza pretese
a cura di Benito Poggio
Autori: Isa Morando & Vito Ugo L’Episcopo
Titolo: L’Angelo seminatore
dedicato ad Angelo Marchese.
Illustrazioni: Disegni di Nanni Perazzo.
Editore: Città del silenzio, Genova
*Sparse riflessioni a carattere generale
La presente lettura – non so se portata avanti da “lettore molto compiacente / – o
forse, ancora più, molto paziente” (p. 47) – l’ho percorsa come ininterrotto colloquio
d’anime e, lo devo ammettere con sincerità, mi ha colpito duro, senza mai attenuare
una certa qual forma di invadenza in me: nella mia mente e nel mio cuore.
Sì, l’importante opera-a-due è un lavoro di impegno sodo e solidale che mi ha
colpito nel profondo perché il prezioso ordito in poesia e in prosa dei due autori, Isa
Morando e Vito Ugo L’Episcopo, sia pure con diversa mano creativa e con differente
empito lirico, ha saputo con forza e senza infingimenti coagularsi approfonditamente,
esprimendole per di più “in veritate mentis ac etiam in veritate cordis”, attorno a
narrazioni e conversazioni, divagazioni e temi lirici tutti connotati da lente e meditate
estrinsecazioni e improvvise e subitanee epifanie.
In senso lato l’intesa espositiva e il modus cogitandi – dischiusi non solo in poesia e
in prosa, ma anche in realtà e in immaginazione – dei due poeti si diffondono, a mio
avviso, alla volta di territori poietici (vale a significare nell’ambito di una creatività
onnicomprensiva), densi di novità e nel contempo sorprendenti.
E tutto ciò proprio grazie al loro pensiero – sempre e ovunque – intriso di forza e di
convinzione: a dire un pensiero forte nell’emanazione dei loro vivi e vitali mondi
interiori connessi sempre all’esistente di ieri e di oggi, e che mai, e per nessuna
ragione, si fa e decade relativisticamente a pensiero debole.
Le due voci, pur nella dissimiglianza lirico-espressiva e nell’alternanza di tonalità
nelle prose, dedicano in piena concordia al collega e maestro Angelo Marchese e
cantano all’unisono foscolianamente (Dei sepolcri, v. 32-33) “l’amico estinto / e
l’estinto con noi” (p. 88) in un lancinante ricordo nel vigesimo (2000-2020) della sua
scomparsa in quella catulliana “nox … perpetua una dormienda” (Carme V), detta dal
rinomato latinista (colombino e normalista) Franco Caviglia (1940-2016) “una notte
soltanto da dormire, infinita” (Catullo, Poesie, Laterza).
Già “al confine sconosciuto” (p. 97), identificato nell’amletica “undiscover’d
country / from whose bourn no traveller returns”, Angelo Marchese qui appare come
«L’angelo seminatore», nel “dopo / che ci aspetta in silenzio, senza fine” (p. 39) e,
idealmente accomunandosi, comprende anche il tragico richiamo ai sogni infranti
suggeriti in «Il ponte di Samuele», un bambino di otto anni che sul “ponte di
cristallo” sta “correndo tra i bagliori della luce” (p. 104). come lo indica, ispirato, il
poeta Giuseppe Conte.
Entrambe le voci si esprimono verso chi è stato apprezzato e benvoluto senza
prevaricazione dell’una sull’altra, cariche e concentrate come sono in emozioni forti e
inquietudini divaricate.
A mio sentire, nel suo complesso e nella sua complessità, l’ampio potenziale liricoespressivo
si rivela sensibile ma non sentimentale nel cerchio delle poesie e delle
prose che fanno capo alla Morando; disincantato ma pregnante nel campo dei testi di
L’Episcopo, vigorosamente martellati con insolita veemenza in poesia e in prosa,
preceduti dall’amichevole e affettuosa introduzione (che richiamerò anche più oltre)
della stessa Morando, cui segue una scelta di composizioni da sei-sillogi-sei: pure, in
entrambi, tale potenziale lirico-espressivo si attiva e incanta da dentro, mai
dall’esterno o dall’alto.
...La liricità, in senso proprio, domina gli animi dei due autori ché nei loro versi si
dicono e spiccano fatti e verità onnicomprensive, non mai per metafora ma “come
ditta dentro” nella loro evidente e determinata corporeità e nel loro effettivo e
tangibile attaccamento alla vita.
Come filo conduttore al centro focale dell’opera, così io reputo, stagliano (rifiuto
sempre il “si” ch’io ritengo superfluo ed errato) Angelo, “il messaggero seminatore”
e Samuele, “il suo nome è Dio”: due figure vive e reali, fattesi immaginifiche
nell’oltrevita, ma che hanno vissuto entrambe tra noi e con noi: due figure oggi
apparentemente labili e pur persistenti nella loro esistenza conclusasi solo sulla terra,
non nel cuore e nell’anima di Anna, non nei cuori e nelle anime di noi tutti.
In apparente distanza giacché in realtà fra loro v’è vicinanza e complicità d’intenti,
i due autori, uniti da un r/esistente filo in/visibile e im/materiale, si lasciano andare e
coinvolgere in un intenso e prolungato colloquio di poesie, e anche di prose, che si fa
incessante e continuo, pertinente e commosso “duologo” attraverso il quale scorrono,
strettamente e intensamente, fiumi di versi nitidi, di espressioni icastiche, di pensieri
eloquenti, di concetti efficaci.
E poesie e prose fra loro correlate finiscono per fare di quest’opera – e non paia
iperbolica o enfatica esagerazione – una sorta di rinnovata, e oserei dire aggiornata,
«Vita nova» consegnata al nostro tempo come rivisitazione delle vicende di Angelo e
di Simone, disseminata di versi, pensieri, riflessioni, commenti connessi a entrambi.
...Se quella dantesca, come tutt’uno, contava su un unico autore, qui confluiscono e si
alternano, ma non si contrappongono, due identità e due autori nei loro specifici
mondi: Isa Morando (pp. 17-109) e Vito Ugo L’Episcopo (pp. 111-168).
Suddivise in due campi ispirate liriche e prose distintamente composte dai due
autori, inanellate e assemblate in un unum concettuale, si susseguono in tempi di
preciso riordino, appunto in fasi di pertinente ed esegetico commento da esse
scaturito e ad esse collegato.
...Nelle liriche dell’una e dell’altro si dà costantemente ragione della vita nei suoi più
felici momenti e più fecondi incontri conoscitivi e di lunga durata, nei suoi più
disparati contorni e nei suoi plurimi accadimenti; ma si vuol dare altresì ragione di
cause e princìpi, di significati e contenuti: il tutto, per la Morando, attraverso una
fervida alternanza di poesie e prose; per L’Episcopo, prevalentemente in dettami di
versi ossessionati nella loro cadenza e in due testi in prosa di una qualche crudezza:
entrambi gli autori evidenziano elevata maturazione interiore e appassionata
ricchezza del dire e del sentire.
Il libro in questione chiarisce un procedimento, a volte semplice e immediato, ma
che risulta armonico e ben congegnato nel suo vivo tessuto articolato, pur se a vari
livelli di lettura esegetica e di decodifica interpretativa: più tenuta alle forme
classiche del passato e del presente nella Morando, che rievoca e spazia dall’arte, alla
letteratura, alla filosofia, al teatro, al cinema et al.; più evoluta e involuta, come
“l’ombra che di ciò che fu e sarà” (p. 164) in considerazioni art-oniriche di presa di
coscienza, di giustificata contestazione e di, così mi pare, contenuta disperazione in
L’Episcopo.
Certamente costruzione e decostruzione dell’opera si basano su un’elaborazione
tanto meditata, interiorizzata e partecipata quanto insolitamente disincantata, rapita e
trasognata, ma senza dubbio sono inizialmente raccordate, quasi in un duetto di
timbro e tenore musicali, dalla fervente ouverture “Per Isa. Dalla vita semplice” (p.
15) che L’Episcopo dedica alla Morando, ove l’incipit proclama e sanziona “Poesia è
chi siamo” e l’explicit attesta alla dedicataria lo specifico, perentorio e acriptico status
che non ammette replica: “Isa è Poeta”; differente il sapore dell’ouverture “Ecco mio
padre… l’ultimo a destra della prima fila…” (p. 115) che la Morando elabora in
dedica a L’Episcopo: serba chiaramente, e lo si è detto più sopra, un tono piano e
rievocativo e, grazie anche alla storica e originale “foto dei tredici ragazzi” (p. 116)
quasi diciottenni, ferma il tempo, come suggerisce la Morando, “per poterlo fissare
per sempre in un’immagine” (ib.), prima che, trasformate in vittime sacrali,
l’imminente, mostruoso e violento moloch della guerra li fagociti e se ne appropri
senza alcuna pietà.
*Sporadici rilievi ed episodiche postille all’interno dell’opera
*Ci tengo a puntualizzare che mi accosto alla duplice partizione morandiana di «A
margine. Frammenti di scrittura (2019)» con la riguardosa decenza da critico alquanto
dimesso qual sono (nullo se raffrontato con l’amico e maestro Angelo) e perciò
conscio della personale pochezza e dei propri limiti nel pronunciarsi sugli altrui
lavori.
Qui la raccolta si snoda in sedici composizioni cinte, e quasi accerchiate, da un
pensoso corredo di prose dallo stile puro, pacato e piacevole, fattesi commenti o
conversazioni, resoconti o descrizioni, o infine assumendo andamento e tonalità di
amicali lettere indirizzate ad Angelo, tese a svelare e divulgare il sapore di una
poetica innervata a spontanei richiami di vita, di intensa e prolungata amicizia con lui
e a naturali estesi rimandi culturali, frutto, sì, di frequentazioni di colleganza e
d’amicizia ad ampio raggio con persona cui “tanto nomine nullum par elogium”, ma
anche di acquisizioni personali e interiorizzate nel campo professionale della docenza
(“la mitica terza E 1972-73”, pp. 108-9) e di costanti approfondimenti su autori
protagonisti non solo del suo mai dimenticato mondo classico, ma anche del mondo
passato più recente, del mondo moderno e del mondo contemporaneo in lei
connaturati.
Non poteva non essere – tratto dal Libro V/170 di quella insondabile miniera che è
l’“Antologia Palatina” – che con Nòsside di Locri l’avvio del raffinato e frastagliato
cammino, poetessa quella – si tramanda – “autrice di canti lirici densi di erotismo” e
per la quale, nelle parole del filologo classico e grecista Guido Paduano, “Niente è
più dolce di amore”.
Anche se a primo intuito non pare, il salto da Nòsside all’amico e poeta Giuseppe
Conte, anch’egli, come nel film di J. Losey, considerato “Messaggero d’amore” (p.
21), così come ai successivi incontri con i tanti personaggi della cultura e dell’arte qui
ricordati, è davvero logico e concettualmente molto breve.
E tra i numerosi amati autori qui citati – troppo numerosi davvero per elencarli tutti
– perché incontrati, studiati e amati non poteva mancare Dante: il Dante particolare
dell’Inferno, quello che “rovinava in basso loco” (p. 55) come capita nei sogni a Isa
Morando.
*Il mio personale e inatteso impatto con gli agili e fluidi versi che martellano in «Dei
solchi e dei passi (antologia del fiume Bisagno)» e marcano e rimarcano “il pianto
senza tempo / Dell’essere qui adesso” (p. 122) e le due prose “Sintassi del morire #2”
(che m’è parsa la trama di “Psycho” riletta al contrario) e “Sintassi del morire #3” (p.
158-159) di Vito Ugo L’Episcopo, già “carissimo ex alunno del Colombo e di Angelo
Marchese” (p. 86), mi hanno in parte sorpreso col loro “suono di ghiaccio” (p. 127).
E l’indelebile scia del suo Maestro si può sommariamente percepire in alcuni dei
risoluti e incisivi versi di L’Episcopo “come l’onda / lasciamo una tenue / risacca di
noi” (p. 129) in cui, mi sembra, è stimolato a inseguire quelli di Marchese “sconfitti,
rassegnati, / alla risacca della vita” (p. 171).
Ma in L’Episcopo incontriamo anche un inatteso e vivo “sole pittore d’ombre” (p.
130), mentre in lui anti-dannunzianamente non è la pioggia che cade sui ecc. ecc., ma
è “il tempo [che] corre / sulle…/ sulla…/ sui…/ sul…” (p. 134); e poi
capronianamente una salsedinosa “Genova” (p. 135) che “respira da lontano” (ib.),
non da Castelletto, ma “Dal Biscione” (ib.) che stende “a braccio sulla città / un
manto morbido e scuro” (ib.) e dove con sirenica melodia “le vele sorseggiano
l’acqua salata” (p. 167).
E su tutto, quasi “sogno non-sogno” (p.140), “ritorna il suono muto del silenzio” (p.
139) che “è un canto disperato” (ib.), e con disperazione chiude il poeta: “non saprò
mai / la fine della storia” (p. 168).
*A questo punto è il caso di ricordare che “finis coronat opus” con l’ultimo canto
«Resisti»: un titolo che per Angelo Marchese, qui poeta vero come il suo Montale et
al., altro non è apparentemente che “frusta parola” (p. 171), ma nel breve commento
introduttivo è correttamente e con nobile intuizione definito “sublime eredità morale
per noi tutti” (ib.).
E, se pure il critico-poeta abbia composto questo lungo canto e meditato recitativo
quasi mezzo secolo fa, si deve ammettere ch’esso conserva alla nostra odierna lettura
tutta la penetrante e acuta profondità concettuale di cui lui, “l’Angelo seminatore”,
era capace.
L’ha indirizzato all’uomo, cioè a tutti e a ciascuno di noi, invocandoci “o
compagno di strada” (ib.) e all’uomo, a tutti e a ciascuno di noi l’invito “resisti” è
ripetuto insistentemente, e per ben dodici volte: una volta a chiusura della prima
sezione, ben dieci volte nella seconda sezione e una volta, ma con una particolare vis
riepilogativa, come chiusa a puntello dell’intero testo.
… L’ho sempre letta questa composizione-messaggio come vera e propria “enciclica
laica” per gli inviti comportamentali virtuosi e per le innegabili verità di evangelico
sapore che espone oltre che per la validità in sé che supera il tempo e si situa al di
sopra dei tempi.
Basti, tra tutti, il messaggio permanente da “l’Angelo seminatore” gridato con
inusuale foga nel verso “C’è la fame, la guerra, l’ingiustizia nel mondo” (p. 173) per
avallare l’intero contenuto e sancire con lui, l’autore Angelo Marchese, quella validità
che supera qualsiasi analisi e dà ostinata e persistente efficacia al suo non effimero
“resisti” (pp. 1711,17210, 1741).
*Pregevoli, suggestivi e delicati i disegni di Nanni Perazzo che come sempre
affiancano e da sempre accompagnano i lavori dell’autrice “lungo il sentiero” (p. 16)
del suo impegno a tutto tondo, dando concretezza non solo ai suoi versi e arricchendo
indubbiamente la leggibilità dei suoi testi.
E nel porre la parola fine a questa mia personale lettura, m’è ritornato alla mente
quanto lessi una volta in una lettera alla sua Giulia (i.e. Julia Schucht, 1923-1937)
dell’austero studioso Antonio Gramsci (1891-1937): “mi ripugna scrivere le solite
vacuità” (Lettere dal carcere, 144): ebbene mi auguro proprio di non esserci incorso
io in questo mio trattatello senza pretese o come delinea Aulo Gellio (Noctes Atticae,
VII, passim) “in questa mia questioncella (declamantiunculam) di duplice
interpretazione” su Isa Morando e Vito Ugo L’Episcopo.
Benito Poggio