domenica 16 giugno 2024

RECENSIONE


SEI DONNE NELLE TEMPERIE DEL RISORGIMENTO

 Rosa Elisa Giangoia



Il progetto storico-letterario “Mnemosine – Donne nell’ombra”, che si propone “di dar voce a personaggi femminili che hanno partecipato alla storia dei fatti e delle idee con contributi di dedizione, amore e coraggio”, si arricchisce del recente volume Dai salotti alle barricate. Donne protagoniste del Risorgimento di Simonetta Ronco che getta una luce nuova su figure femminili spesso poco conosciute dal grande pubblico, ma che nella loro esistenza sono state protagoniste della vita sociale, culturale e politica di Milano in epoca risorgimentale, alcune anche con una significativa presenza a Genova.
Simonetta Ronco, che da molti anni dedica la sua attività di storica e di biografa alle vicende del nostro Risorgimento, convinta che sia stato il momento più significativo per l’emergere del ruolo della donna sul palcoscenico della storia, ha voluto, con questo suo nuovo lavoro, tratteggiare l’esperienza umana di una serie di donne delle quali si è impegnata a metterne in luce la personalità e l’attività per dar loro quella visibilità e quel riconoscimento di cui sono oggettivamente meritevoli.
Per raggiungere i suoi obiettivi l’autrice ha compiuto attente ricerche storiche e biografiche su fonti documentarie e archivistiche dell’epoca, di cui ha tratteggiato in modo esaustivo e avvincente anche le vicende storiche generali.
Ma Simonetta Ronco ha arricchito l’indagine storica con la sua personale abilità di narratrice, dimostrata in tanti romanzi, e, sulla linea della lezione manzoniana del rapporto tra storia e invenzione e tra vero e verosimile, dà anche spazio ai sentimenti e ai pensieri delle varie protagoniste, grazie alla sua fantasia, sostenuta dalla sua esperienza storica e sostanziata dalla sua consapevolezza psicologica.
Diverse per molti aspetti sono le donne che vengono tratteggiate e differenti sono stati i loro ruoli e i loro impegni: alcune sono rimaste ai margini delle ideologie politiche, patriottiche e indipendentiste dell’‘800, altre si sono impegnate con coraggio e determinazione, talvolta anche con sacrifici personali, per affermare e realizzare i loro ideali, cioè l’indipendenza dallo straniero e l’unità dell’Italia. Sovente accanto o alle loro spalle, c’era un uomo con cui condividevano gli intenti con dedizione e passione, talvolta anche con stretti legami sentimentali.
La prima a comparire in scena è Antonietta Fagnani Arese (1778-1847), ben nota dalle abituali letture scolastiche, nei cui confronti si è consolidata, ed anzi ampliata, quella fama che Ugo Foscolo le aveva preconizzato tra “le insubri nipoti” dedicandole l’ode All’amica risanata. Simonetta Ronco la svincola da questa ristrettezza di “divina” figura letteraria e ne tratteggia un ritratto umano, autentico e vivace, quello di una donna molto libera nei costumi e nei comportamenti, in quella Milano, dove, pur ancora attivo il cicisbeismo di pariniana memoria, le donne godevano di totale autonomia sentimentale. Il suo legame con il Foscolo è forte e appassionato, come documentano le lettere del poeta che ci sono rimaste (perse quelle di Antonietta), ma breve, per volontà di lei, ma soprattutto essendo entrambi volubili nel cuore.
Segue la ricostruzione della vita di Bianca Milesi Mojon (1790-1849), esuberante e appassionata protagonista della vita politica milanese e molto interessata ai problemi sociali negli anni turbolenti delle vicende napoleoniche, trasferitasi poi a Genova, dove sposa il medico Benedetto Mojon e, diventata madre di tre figli, si occupa di problemi educativi dell’infanzia e di emancipazione femminile, per finire poi la sua vita a Parigi, dove, lei e il marito muoiono lo stesso giorno di colera.
Da Milano approda a Genova anche Bianca De Simoni Rebizzo (1800-1869), quando, nel 1825, sposa Lazzaro Rebizzo, già strettamente legato a Nina Giustiniani, di cui fu confidente e consolatore negli anni del suo infelice amore per Camillo Cavour. Nella città ligure Bianca intrecciò “un amore intenso e duraturo con Raffaele Rubattino”, ma fu soprattutto attiva come patriota, benefattrice ed educatrice. Legò il suo nome alla fondazione di un asilo infantile e del Collegio delle Peschiere, destinato all’educazione delle giovinette di buona famiglia. Quando morì, Aleardo Aleardi compose in suo onore un poema che offrì al marito.
Ecco poi comparire nelle pagine del libro Giuditta Bellerio Sidoli (1804-1871), attratta sin da giovane dalle società segrete finalizzate a ottenere l’indipendenza e l’unità d’Italia. Ma il nome di questa donna “intelligente, appassionata, impulsiva” che “dimostrava uno straordinario equilibrio di volontà ferrea e sensibilità” è legato a quello di Giuseppe Mazzini, per amore del quale, dovette sopportare momenti difficili fino ad essere privata dei figli. Ma, come attestano le lettere che i due si scambiarono, da quando si conobbero fino alla morte, il loro legame fu molto forte, alimentato dai comuni ideali politici, pur nelle movimentate vicende del loro destino.
Segue la biografia di Laura Solera Mantegazza (1813-1873), una donna dalla vita solo apparentemente semplice, in quanto senza avventure e drammatiche esperienze. In realtà fu persona di grandi entusiasmi e di forti passioni che, sullo scenario delle vicende risorgimentali, vissute con spirito patriottico di orientamento mazziniano, grazie al suo intenso impegno sociale, seppe dar vita a grandi opere, fondando il primo Ricovero per bambini lattanti in Italia e l’Associazione Generale di mutuo soccorso delle operaie e delle scuole professionali femminili.
La rassegna di queste figure femminili si conclude con Giulia Calami Modena (1816-1869) che lasciò la confortevole casa di famiglia e rinunciò ad un matrimonio di borghese convenienza per legarsi con l’attore Gustavo Modena di cui condivideva l’amore per la patria e per l’arte. La loro vita fu subito avventurosa e burrascosa con la fuga dall’Italia per riparare oltralpe, poi a Bruxelles e a Londra, dove Gustavo poté ritornare sulle scene teatrali declamando Dante. Ritornati in Italia, si lasciarono coinvolgere dalle vicende militari, in Veneto, a Milano e a Roma, nel fervore degli ideali mazziniani, Gustavo, come combattente e Giulia, rendendosi utile in tutti i modi possibili, ma soprattutto come infermiera e organizzatrice dei soccorsi e delle cure ai feriti.
Nell’insieme risulta questo un libro molto interessante dal punto di vista storico e di piacevole lettura, in quanto l’abilità dell’autrice di ricostruire e di narrare ci fa rivivere il nostro Risorgimento non solo nel tradizionale susseguirsi di eventi politici e militari, ma anche in una dimensione più umana e più vera, presentandoci le vicissitudini, le emozioni e i sentimenti di sei donne che nelle temperie di quei decenni hanno dovuto decidere della loro vita, schierarsi, prendere posizioni, sovente con difficoltà e sofferenze, dimostrando sempre determinazione, fierezza e coraggio.

Simonetta Ronco, Dai salotti alle barricate, Pietro Macchione Editore, Varese, 2024, pp. 131, € 15,00.

sabato 15 giugno 2024

RECENSIONE

 

 


Gabriele Braggion

La madre, nella narrativa di Antonio Franchini, si era affacciata una prima volta in Quando vi ucciderete, maestro? (1996), il libro sul combattimento e le arti marziali. E già allora, tra racconti di palestra e digressioni sull’eroismo, svolgeva il compito che è suo nel nuovo romanzo Il fuoco che ti porti dentro (Marsilio, 2024, pp. 222, Ɛ18): abbassare azzerare avvilire tutto ciò che, staccandosi dal piattume della realtà, può elevare verso l’arte il bello il poetico. Lo faceva allora a cominciare dal titolo. Ripreso dalla domanda che un discepolo devoto rivolge allo scrittore Mishima prima del suicidio rituale, ma rovesciato da Angela nella maledizione indirizzata a chiunque voglia veder cancellato: “Ma quando, quando t’acciri?”.
Piacere, Angela - dunque. E chissà se Franchini, quando spiega come un bersaglio favorito della madre siano le altre donne e in particolare l’ex cancelliera sua omonima (“nun facette buono Berlusconi ch’a chiammaie culo ‘e cuofano?”), ha notato che Angela Izzo è anche il femminile di Angelo Izzo, femminicida seriale la cui carriera iniziò al Circeo. Per fortuna la misoginia di Angela - uno fra i tanti difetti italiani che in lei si sommano - è tutta verbale, e possiede la comicità dirompente che producono invettiva e dialetto quando si mischiano come le polveri dei fuochi d’artificio.
Quanto alla battutaccia, Angela sta ripetendo parole che forse non furono mai pronunciate, ma tant’è: chi al tempo del governo Berlusconi s’indignava, può sempre ridere adesso: uno dei meriti del personaggio Angela è ricordarci che un fondo di bassezza ristagna in ognuno di noi. La Napoli borghese vicino a quella dei lazzaroni, gli insulti feroci e barocchi delle vasciaiole alternati alla scrittura pensosa, stirata in frasi perfette, che dà a Franchini il suo timbro inconfondibile: nel romanzo famigliare, che è anche romanzo di tutto il Sud, alto e basso si consumano allo stesso fuoco.
E se gli incipit delle storie che si sgranano intorno al tema centrale hanno qualcosa dell’antico novellare italiano (“Invece un giorno il figlio tornò ..”; “Le ho raccontato una storia …”; “Carmela era assai bella…”; “Era una vecchia che viveva da sola…”), le invettive e gli insulti raddoppiati di Angela (“puozze murì accisa, ‘sta zoccola puttana”, “… Rimini e Riccione, e tutti chilli post’ ’e merda, con un mare di merda, fangoso! Site fangosi, vuie!”) ricordano pure modelli classici, ma viene in mente piuttosto il Corbaccio, l’operetta in cui Giovanni Boccaccio, volendo ammaestrare il sapiente a tenersi alla larga dal genere femminile, compone il ritratto turpe e divertentissimo di una vedova.
Il romanzo di Angela, dicevamo, è contrappuntato di storie: ma sono le altre - quelle incontrate e non raccontate o viste solo quando si è già alla fine, secondo uno schema iniziato da Franchini in una bella narrazione di vita con i pescatori di Mazara del Vallo, racconto post-comissiano apparso tanti anni fa in “Nuovi Argomenti".
C’è la storia dello zio avvocato, modello di stile e di una virilità vittoriosa e malinconica; o quella dell’altro avvocato di provincia, uomo colto nell’eloquio quanto perduto dietro le beghe miserabili in cui si consuma la vita; o quella dell’Eroe, lo zio paterno che portava lo stesso nome dell’autore, artista promettente morto sul fronte di Cassino. Tonino Franchini pittore - lui pure personaggio di riferimento che abbiamo incontrato più volte - appare qui in forma brevissima, e lancinante come dev’essere la morte in battaglia. Il suo destino combacia con quello di un ignoto, caduto nella Grande Guerra e celebrato da D’Annunzio in una iscrizione dettata per il sacrario di Pocol: IN QUESTA TERRA DI FURORE / DOVE EGLI RICADDE RAGGIANTE DI SANGUE / PER RIMANERVI IMMAGINE DI LUCE. Ma immancabilmente, al rovesciamento e sputtanamento della retorica ha già provveduto, trenta pagine prima, Angela col riassunto impietoso della campagna di Russia del marito: “Che po’ pateto quale guerra iette a fà in Russia? La guerra d’ ’o lietto, pecché l’ammo saputo doppo chello ca sanno fà russe, bielorusse e ucraìne … Nu paese ‘e zoccole!”.
Riappare così nel Fuoco quasi tutto ciò che alimenta la narrativa di Antonio Franchini da tre decenni. Su ogni tema però posandosi uno sguardo di congedo. Perfino le arti marziali amate e praticate, con l’insegnamento a puntare dritto contro ciò che ci minaccia, appaiono smitizzate e depotenziate nella scena comica e triste di una lite agostana: gli insulti della madre come colpi reiterati e lui, il figlio, stanco e disilluso samurai che si avventa, mentre la furia si disperde contro la porta finestra di una casa di vacanza sulla costa calabrese.
Dare conto di che libro abbia voluto scrivere Franchini, quale sia la ragione ultima che lo motiva, porta a letture diverse di cui nessuna però contraddice o indebolisce le altre.
È un libro sulla famiglia. Che, se l’abbiamo avuta, sembrerebbe la storia più facile del mondo da mettere in fila e tutta in chiaro: loro sono quelli con cui hai vissuto, che hai conosciuto. Questa è la tua storia. E invece no. Quando con l’età si arriva a tirare le somme, può succedere anche che fatti, persone e ragioni di cui eravamo certissimi si dileguino (“chissà poi dopo che è successo […] forse niente di speciale, solo l’ordinario disfacimento della nostra vita”), così.
È un libro la cui linea di galleggiamento, nel senso della lingua, pesca profondamente nel dialetto, il quale, se uno lo possiede ancora almeno come suono, rinvia all’infanzia, al primo modo in cui abbiamo nominato le cose. Ed è strano allora udire il Franchini postemingueiano, scrittore dichiaratamente nemico della bravura retorica, autore di dialoghi asciutti privi di virgolette, rivolgersi qui alla madre con un “comme staie”. Come se dalla vita profonda della famiglia e del sangue, per quanto li rinneghiamo, non fosse mai possibile liberarsi del tutto.
Il fuoco che ti porti dentro, infine, è anche contemplazione della morte da parte di uno scrittore che, avendo sperimentato nella lotta il contatto con la forza e la salute dei corpi vivi, è ben attrezzato per guardare al loro disfacimento in vecchiaia con l’atteggiamento più umano - cioè a ciglio asciutto.
E si tratta di un libro con un vero e proprio finale, anche se dall’inizio alla fine non succede niente: il figlio è il figlio-scrittore che conosciamo e la madre la tempesta d’insulti che si addensa fin dalle prime pagine. In mezzo - e con questo non spoileriamo niente e nessuno - c’è una prova riuscitissima di fermare la vita. Cioè di dire come dal tutto dell’amore e dell’odio si approda al nulla, al disarmo e all’oblio. A meno che qualcuno non scriva di noi.
Perciò alla frase più impensabile che mamma italiana di figlio scrittore abbia mai profferito: “ ’o scrittore, ’o scrittore… scrittore d’ ’o cazzo, questo tu sei” credeteci senz’altro. Ma per capire, leggete fino in fondo.