Gabriele Braggion La madre, nella narrativa di Antonio Franchini, si era affacciata una prima volta in Quando vi ucciderete, maestro? (1996), il libro sul combattimento e le arti marziali. E già allora, tra racconti di palestra e digressioni sull’eroismo, svolgeva il compito che è suo nel nuovo romanzo Il fuoco che ti porti dentro (Marsilio, 2024, pp. 222, Ɛ18): abbassare azzerare avvilire tutto ciò che, staccandosi dal piattume della realtà, può elevare verso l’arte il bello il poetico. Lo faceva allora a cominciare dal titolo. Ripreso dalla domanda che un discepolo devoto rivolge allo scrittore Mishima prima del suicidio rituale, ma rovesciato da Angela nella maledizione indirizzata a chiunque voglia veder cancellato: “Ma quando, quando t’acciri?”.
Piacere, Angela - dunque. E chissà se Franchini, quando spiega come un bersaglio favorito della madre siano le altre donne e in particolare l’ex cancelliera sua omonima (“nun facette buono Berlusconi ch’a chiammaie culo ‘e cuofano?”), ha notato che Angela Izzo è anche il femminile di Angelo Izzo, femminicida seriale la cui carriera iniziò al Circeo. Per fortuna la misoginia di Angela - uno fra i tanti difetti italiani che in lei si sommano - è tutta verbale, e possiede la comicità dirompente che producono invettiva e dialetto quando si mischiano come le polveri dei fuochi d’artificio.
Quanto alla battutaccia, Angela sta ripetendo parole che forse non furono mai pronunciate, ma tant’è: chi al tempo del governo Berlusconi s’indignava, può sempre ridere adesso: uno dei meriti del personaggio Angela è ricordarci che un fondo di bassezza ristagna in ognuno di noi. La Napoli borghese vicino a quella dei lazzaroni, gli insulti feroci e barocchi delle vasciaiole alternati alla scrittura pensosa, stirata in frasi perfette, che dà a Franchini il suo timbro inconfondibile: nel romanzo famigliare, che è anche romanzo di tutto il Sud, alto e basso si consumano allo stesso fuoco.
E se gli incipit delle storie che si sgranano intorno al tema centrale hanno qualcosa dell’antico novellare italiano (“Invece un giorno il figlio tornò ..”; “Le ho raccontato una storia …”; “Carmela era assai bella…”; “Era una vecchia che viveva da sola…”), le invettive e gli insulti raddoppiati di Angela (“puozze murì accisa, ‘sta zoccola puttana”, “… Rimini e Riccione, e tutti chilli post’ ’e merda, con un mare di merda, fangoso! Site fangosi, vuie!”) ricordano pure modelli classici, ma viene in mente piuttosto il Corbaccio, l’operetta in cui Giovanni Boccaccio, volendo ammaestrare il sapiente a tenersi alla larga dal genere femminile, compone il ritratto turpe e divertentissimo di una vedova.
Il romanzo di Angela, dicevamo, è contrappuntato di storie: ma sono le altre - quelle incontrate e non raccontate o viste solo quando si è già alla fine, secondo uno schema iniziato da Franchini in una bella narrazione di vita con i pescatori di Mazara del Vallo, racconto post-comissiano apparso tanti anni fa in “Nuovi Argomenti".
C’è la storia dello zio avvocato, modello di stile e di una virilità vittoriosa e malinconica; o quella dell’altro avvocato di provincia, uomo colto nell’eloquio quanto perduto dietro le beghe miserabili in cui si consuma la vita; o quella dell’Eroe, lo zio paterno che portava lo stesso nome dell’autore, artista promettente morto sul fronte di Cassino. Tonino Franchini pittore - lui pure personaggio di riferimento che abbiamo incontrato più volte - appare qui in forma brevissima, e lancinante come dev’essere la morte in battaglia. Il suo destino combacia con quello di un ignoto, caduto nella Grande Guerra e celebrato da D’Annunzio in una iscrizione dettata per il sacrario di Pocol: IN QUESTA TERRA DI FURORE / DOVE EGLI RICADDE RAGGIANTE DI SANGUE / PER RIMANERVI IMMAGINE DI LUCE. Ma immancabilmente, al rovesciamento e sputtanamento della retorica ha già provveduto, trenta pagine prima, Angela col riassunto impietoso della campagna di Russia del marito: “Che po’ pateto quale guerra iette a fà in Russia? La guerra d’ ’o lietto, pecché l’ammo saputo doppo chello ca sanno fà russe, bielorusse e ucraìne … Nu paese ‘e zoccole!”.
Riappare così nel Fuoco quasi tutto ciò che alimenta la narrativa di Antonio Franchini da tre decenni. Su ogni tema però posandosi uno sguardo di congedo. Perfino le arti marziali amate e praticate, con l’insegnamento a puntare dritto contro ciò che ci minaccia, appaiono smitizzate e depotenziate nella scena comica e triste di una lite agostana: gli insulti della madre come colpi reiterati e lui, il figlio, stanco e disilluso samurai che si avventa, mentre la furia si disperde contro la porta finestra di una casa di vacanza sulla costa calabrese.
Dare conto di che libro abbia voluto scrivere Franchini, quale sia la ragione ultima che lo motiva, porta a letture diverse di cui nessuna però contraddice o indebolisce le altre.
È un libro sulla famiglia. Che, se l’abbiamo avuta, sembrerebbe la storia più facile del mondo da mettere in fila e tutta in chiaro: loro sono quelli con cui hai vissuto, che hai conosciuto. Questa è la tua storia. E invece no. Quando con l’età si arriva a tirare le somme, può succedere anche che fatti, persone e ragioni di cui eravamo certissimi si dileguino (“chissà poi dopo che è successo […] forse niente di speciale, solo l’ordinario disfacimento della nostra vita”), così.
È un libro la cui linea di galleggiamento, nel senso della lingua, pesca profondamente nel dialetto, il quale, se uno lo possiede ancora almeno come suono, rinvia all’infanzia, al primo modo in cui abbiamo nominato le cose. Ed è strano allora udire il Franchini postemingueiano, scrittore dichiaratamente nemico della bravura retorica, autore di dialoghi asciutti privi di virgolette, rivolgersi qui alla madre con un “comme staie”. Come se dalla vita profonda della famiglia e del sangue, per quanto li rinneghiamo, non fosse mai possibile liberarsi del tutto.
Il fuoco che ti porti dentro, infine, è anche contemplazione della morte da parte di uno scrittore che, avendo sperimentato nella lotta il contatto con la forza e la salute dei corpi vivi, è ben attrezzato per guardare al loro disfacimento in vecchiaia con l’atteggiamento più umano - cioè a ciglio asciutto.
E si tratta di un libro con un vero e proprio finale, anche se dall’inizio alla fine non succede niente: il figlio è il figlio-scrittore che conosciamo e la madre la tempesta d’insulti che si addensa fin dalle prime pagine. In mezzo - e con questo non spoileriamo niente e nessuno - c’è una prova riuscitissima di fermare la vita. Cioè di dire come dal tutto dell’amore e dell’odio si approda al nulla, al disarmo e all’oblio. A meno che qualcuno non scriva di noi.
Perciò alla frase più impensabile che mamma italiana di figlio scrittore abbia mai profferito: “ ’o scrittore, ’o scrittore… scrittore d’ ’o cazzo, questo tu sei” credeteci senz’altro. Ma per capire, leggete fino in fondo.
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