martedì 10 settembre 2024

RECENSIONE

 LA RINASCITA DI UNA DONNA

 Rosa Elisa Giangoia


Con il suo nuovo romanzo Sadia. Storia di una donna Donatella Mascia arricchisce la sua ormai vasta produzione narrativa aggiungendo un genere letterario diverso, quello dell’autobiografia di un personaggio, una donna, appunto, di nome Sadia, che racconta le sue vicissitudini personali, con una narrazione che riporta al romanzo di formazione (Bildungsroman), raramente con protagonista una donna. Ma la vicenda narrata da Donatella Mascia ha un forte rilievo socio-culturale, in quanto si incentra sulla concezione del matrimonio e sulla condizione della donna in una società, come quella del Bangladesh, paese di religione musulmana sunnita, in cui le donne, prive di autonoma libertà decisionale, vivono in una condizione di oppressione da parte della componente maschile della famiglia.

    Questo è appunto la situazione di Sadia che, appena diventata donna, viene obbligata, nonostante il suo desiderio di continuare a studiare, a sposare un uomo mai visto prima, che si dice abbia fatto fortuna a Roma. Sadia, senza alcun sostegno nella sua famiglia, anzi fortemente indotta dalla madre e dalla nonna a obbedire a questa scelta fatta da altri per lei, acconsente e si trasferisce a Roma, dove deve purtroppo rendersi conto che la condizione sociale del marito non è economicamente florida, come le avevano fatto credere, e dove inizia per lei un calvario di convivenze forzate in appartamenti sovraffollati per la presenza di altri connazionali che le impongono pesanti incombenze domestiche, a cui si aggiungono i turni massacranti nelle attività di pulizie condominiali del marito che diventa il suo più violento oppressore nel lavoro e nei rapporti personali, contrassegnati da stupri e maltrattamenti, anche dopo la nascita di due figli, fino alle minacce, e poi ai tentativi, di ucciderla. Per il marito è tutto nella norma del suo essere padrone della moglie, in base alla concezione tradizionale dei rapporti matrimoniali nel suo paese.
    Dopo il susseguirsi di tante vicissitudini, Sadia, che non ha avuto neppure comprensione e protezione da parte della sua famiglia d’origine durante un breve rientro in Bangladesh, trova la forza di denunciare il marito e di affidarsi alla tutela che la legge può concederle in Italia: di qui inizia per lei la via della fiducia nella giustizia, ma anche in se stessa e in altre persone che l’aiutano a costruirsi una vita autonoma, insieme ai suoi figli, lontano dai soprusi e dalle prevaricazioni del marito, ormai condannato e incarcerato.
    Tutte queste vicende vengono narrate da Donatella Mascia con un’organizzazione della fabula secondo un intreccio accattivante e coinvolgente per il lettore, ma anche con abili approfondimenti psicologici che costruiscono con verisimiglianza la personalità di Sadia, i suoi turbamenti e le relazioni con la famiglia, il marito e gli altri personaggi, a cui si aggiunge una convincente ricostruzione socio-economica del Bangladesh che dimostra un’ottima documentazione su quel paese, lontano da noi non solo geograficamente ma soprattutto per usi, costumi e tradizioni.
    L’intento principale dell’autrice è senz’altro quello di far emergere con questa emblematica vicenda la difficilissima situazione in cui vivono le donne nei paesi dove domina ancora la forte tradizione dell’islamismo più radicale, condizione che, purtroppo, ha avuto ricadute anche qui in Italia con dolorosi episodi di cronaca che hanno creato sbigottimento e sconforto nell’opinione pubblica. La questione si incentra sulla mancanza di libertà di autodeterminazione per le donne, bloccate nei loro progetti di vita e obbligate a matrimoni imposti dalla famiglia. Tutto questo avviene in situazioni di forte e acritica adesione alla tradizione sociale e religiosa, in forme e modi che a noi, eredi dell’evoluzione della mentalità derivante dal Rinascimento e dall’Illuminismo, appaiono incomprensibili e inaccettabili. Dobbiamo, però, pensare che per lungo tempo, anche nella nostra cultura, il matrimonio è stato vissuto come un contratto, sulla base di convenienze familiari, più che come un legame affettivo e sentimentale tra due persone. A mettere in discussione questa visione del matrimonio hanno fortemente contribuito diverse opere letterarie, come Giulia o La Nuova Eloisa di Rousseau, I dolori del Giovane Werther di Goethe e Le ultime lettere di Jacopo Ortis del Foscolo, spostando l’attenzione sulla sfera soggettiva e sulla personale consonanza psicologica determinante per l’amore come fondamento del matrimonio. Possiamo quindi sperare che la letteratura, con buoni romanzi, come questo, capaci di prospettare problemi, ma anche di indicare vie di risoluzione, possa ancora contribuire ai cambiamenti di mentalità, anche se oggi ci sono molti altri soggetti che entrano in gioco.

Donatella MASCIA, Sadia storia di una donna, Genova, Stefano Termanini Editore, 2024, pp. 271, € 18,00.



giovedì 25 luglio 2024

RECENSIONE


Rosa Elisa Giangoia


Marinella Gagliardi Santi ha tratto ispirazione dalla sua tesi di laura in Epigrafia Greca sulla magia, in particolare sulle Defixiones, cioè sulle tavolette greche e latine di “maledizione”, usate per augurare la cattiva sorte ai nemici o propiziarsi le divinità per situazioni personali, in base alla diffusa propensione alle superstizioni e ai riti magici degli antichi greci e romani. Da queste ricerche di base, implementate con successivi approfondimenti e aggiornamenti, grazie anche alla consultazione di più recenti pubblicazioni scientifiche, in una sapiente combinazione di invenzione, secondo il criterio della verisomiglianza storica, e di notizie acquisite dalle testimonianze letterarie, storiche e archeologiche, sono nati tre piacevoli e interessanti romanzi che portano avanti le vicende di un gruppo di personaggi nel mondo romano del I secolo d.C.
Il primo romanzo, DEFIXIONES. Il mistero delle tavolette magiche (2012) ci porta in una Pompei ancora ricca e florida, in cui si svolgono le vicende di un gruppo di abitanti, in particolare del rinomato mago Pitone, autore appunto di defixiones, ma che, a causa della sua distrazione, combina molti guai, creando scompiglio nella vita di Publio, un agiato armatore di navi, di un anziano indovino e anche degli aurighi nelle loro gare di cocchi, in un susseguirsi di risvolti misteriosi, su cui aleggia la pungente ironia dell’autrice.
Il secondo, DEFIXIONES. Dimenticare Pompei (2016), vede i protagonisti del primo, Publio e Pitone, costretti ad abbandonare la città campana, sconvolta e distrutta a seguito della catastrofica eruzione del Vesuvio, per cercare riparo a Ostia, cittadina caratterizzata da un’intensa attività commerciale, grazie al suo porto. Le vicende si svolgono tra qui e Roma, per le strade, ma anche sul Tevere, oltre che con viaggi in Gallia, per dare rilievo al nuovo acquedotto costruito dai Romani alle Aquae Sextia, e nell’Italia Meridionale. Tutto questo mentre un piano delittuoso incombe sui due protagonisti e sulle loro famiglie, in un avvincente susseguirsi di intrighi e colpi di scena. Parte importante ha anche in questo romanzo la magia a cui l’autrice continua a guardare con quella nota di ironia che sottolinea la distanza del tempo.
Ed ecco proseguire le vicende di questi stessi personaggi nel terzo romanzo, DEFIXIONES. Roma brucia ancora (2023), in cui protagonista è ancora l’armatore Publio, a cui ora viene affidata una missione segreta in Oriente d parte dell’imperatore Tito. Con lui s’imbarcano anche il suo secondo figlio Lucio e, naturalmente, il mago Pitone, che verrà coinvolto in mirabolanti avventure, mentre a casa rimane la moglie Sibilla con il figlio più piccolo, Gaio. Così le vicende si svolgono tra Roma e i mari del Mediterraneo Orientale in un sapiente gioco narrativo fatto di entralecement, degno dei migliori esempi dei testi del Ciclo arturiano e dei poemi cavallereschi, in un continuo spostamento di luoghi tra Roma e i porti del Mediterraneo, a cui si aggiunge Mediolanum dove si sta affermando professionalmente Licinio, il figlio maggiore di Publio, come collaboratore di Ceciliano, magistrato responsabile dell’approvvigionamento idrico in tutto l’impero.
L’epicentro è comunque sempre Roma, dove si tessono subdoli intrighi e complesse trame di palazzo per la contrapposizione tra Tito e suo fratello Domiziano, in un susseguirsi di rapimenti, omicidi e indagini. Intanto improvviso e inaspettato si verifica il pauroso incendio dell’80 d.C. che costringerà i nostri protagonisti a riparare nuovamente a Ostia, dove verranno raggiunti anche dai due famosi poeti satirici, Marziale e Giovenale, e dove in fine si ricomporranno i fili di tutte le vicende, riportando i personaggi a una condizione di stasi da cui sembrano pronti per ispirare a Marinella Gagliardi Santi nuove avventure.
Viene fuori un romanzo appassionante che fornisce ai lettori un quadro storicamente accurato della ricostruzione della vita romana del I secolo d.C., per la puntuale documentazione sui testi degli autori più attendibili, ma reso attraente dalla fantasia dell’autrice che popola questo mondo con tanti personaggi verosimili, avventurieri e sicari, soldati e marinai, donne orientali e matrone romane, streghe e sedicenti imperatori inaspettatamente sfuggiti alla morte.
E' un romanzo senz’altro coinvolgente e di piacevole lettura, condotto con immediatezza, vivacità e sorridente ironia sulle debolezze di questi antichi personaggi, che ci riescono sempre simpatici e che sono tutti ben tratteggiati a tutto tondo nelle loro individuali caratteristiche psicologiche.
A rendere piacevole la lettura è anche la scrittura, scorrevole, controllata e sempre appropriata, capace di farci sentire presenti in quel mondo, vicini ai protagonisti di tante vicissitudini.

Marinella GAGLIARDI SANTI, DEFIXIONES. Il mistero delle tavolette magiche, Roma, Armando Curcio Editore, 2012, pp. 318, € 10,00.
Marinella GAGLIARDI SANTI, DEFIXIONES. Dimenticare Pompei, Roma, Armando Curcio Editore, 2016, pp. 446, € 15,00.
Marinella GAGLIARDI SANTI, DEFIXIONES, Roma brucia ancora, Roma, Armando Curcio Editore, 2023, pp. 335, € 18,00.





domenica 16 giugno 2024

RECENSIONE


SEI DONNE NELLE TEMPERIE DEL RISORGIMENTO

 Rosa Elisa Giangoia



Il progetto storico-letterario “Mnemosine – Donne nell’ombra”, che si propone “di dar voce a personaggi femminili che hanno partecipato alla storia dei fatti e delle idee con contributi di dedizione, amore e coraggio”, si arricchisce del recente volume Dai salotti alle barricate. Donne protagoniste del Risorgimento di Simonetta Ronco che getta una luce nuova su figure femminili spesso poco conosciute dal grande pubblico, ma che nella loro esistenza sono state protagoniste della vita sociale, culturale e politica di Milano in epoca risorgimentale, alcune anche con una significativa presenza a Genova.
Simonetta Ronco, che da molti anni dedica la sua attività di storica e di biografa alle vicende del nostro Risorgimento, convinta che sia stato il momento più significativo per l’emergere del ruolo della donna sul palcoscenico della storia, ha voluto, con questo suo nuovo lavoro, tratteggiare l’esperienza umana di una serie di donne delle quali si è impegnata a metterne in luce la personalità e l’attività per dar loro quella visibilità e quel riconoscimento di cui sono oggettivamente meritevoli.
Per raggiungere i suoi obiettivi l’autrice ha compiuto attente ricerche storiche e biografiche su fonti documentarie e archivistiche dell’epoca, di cui ha tratteggiato in modo esaustivo e avvincente anche le vicende storiche generali.
Ma Simonetta Ronco ha arricchito l’indagine storica con la sua personale abilità di narratrice, dimostrata in tanti romanzi, e, sulla linea della lezione manzoniana del rapporto tra storia e invenzione e tra vero e verosimile, dà anche spazio ai sentimenti e ai pensieri delle varie protagoniste, grazie alla sua fantasia, sostenuta dalla sua esperienza storica e sostanziata dalla sua consapevolezza psicologica.
Diverse per molti aspetti sono le donne che vengono tratteggiate e differenti sono stati i loro ruoli e i loro impegni: alcune sono rimaste ai margini delle ideologie politiche, patriottiche e indipendentiste dell’‘800, altre si sono impegnate con coraggio e determinazione, talvolta anche con sacrifici personali, per affermare e realizzare i loro ideali, cioè l’indipendenza dallo straniero e l’unità dell’Italia. Sovente accanto o alle loro spalle, c’era un uomo con cui condividevano gli intenti con dedizione e passione, talvolta anche con stretti legami sentimentali.
La prima a comparire in scena è Antonietta Fagnani Arese (1778-1847), ben nota dalle abituali letture scolastiche, nei cui confronti si è consolidata, ed anzi ampliata, quella fama che Ugo Foscolo le aveva preconizzato tra “le insubri nipoti” dedicandole l’ode All’amica risanata. Simonetta Ronco la svincola da questa ristrettezza di “divina” figura letteraria e ne tratteggia un ritratto umano, autentico e vivace, quello di una donna molto libera nei costumi e nei comportamenti, in quella Milano, dove, pur ancora attivo il cicisbeismo di pariniana memoria, le donne godevano di totale autonomia sentimentale. Il suo legame con il Foscolo è forte e appassionato, come documentano le lettere del poeta che ci sono rimaste (perse quelle di Antonietta), ma breve, per volontà di lei, ma soprattutto essendo entrambi volubili nel cuore.
Segue la ricostruzione della vita di Bianca Milesi Mojon (1790-1849), esuberante e appassionata protagonista della vita politica milanese e molto interessata ai problemi sociali negli anni turbolenti delle vicende napoleoniche, trasferitasi poi a Genova, dove sposa il medico Benedetto Mojon e, diventata madre di tre figli, si occupa di problemi educativi dell’infanzia e di emancipazione femminile, per finire poi la sua vita a Parigi, dove, lei e il marito muoiono lo stesso giorno di colera.
Da Milano approda a Genova anche Bianca De Simoni Rebizzo (1800-1869), quando, nel 1825, sposa Lazzaro Rebizzo, già strettamente legato a Nina Giustiniani, di cui fu confidente e consolatore negli anni del suo infelice amore per Camillo Cavour. Nella città ligure Bianca intrecciò “un amore intenso e duraturo con Raffaele Rubattino”, ma fu soprattutto attiva come patriota, benefattrice ed educatrice. Legò il suo nome alla fondazione di un asilo infantile e del Collegio delle Peschiere, destinato all’educazione delle giovinette di buona famiglia. Quando morì, Aleardo Aleardi compose in suo onore un poema che offrì al marito.
Ecco poi comparire nelle pagine del libro Giuditta Bellerio Sidoli (1804-1871), attratta sin da giovane dalle società segrete finalizzate a ottenere l’indipendenza e l’unità d’Italia. Ma il nome di questa donna “intelligente, appassionata, impulsiva” che “dimostrava uno straordinario equilibrio di volontà ferrea e sensibilità” è legato a quello di Giuseppe Mazzini, per amore del quale, dovette sopportare momenti difficili fino ad essere privata dei figli. Ma, come attestano le lettere che i due si scambiarono, da quando si conobbero fino alla morte, il loro legame fu molto forte, alimentato dai comuni ideali politici, pur nelle movimentate vicende del loro destino.
Segue la biografia di Laura Solera Mantegazza (1813-1873), una donna dalla vita solo apparentemente semplice, in quanto senza avventure e drammatiche esperienze. In realtà fu persona di grandi entusiasmi e di forti passioni che, sullo scenario delle vicende risorgimentali, vissute con spirito patriottico di orientamento mazziniano, grazie al suo intenso impegno sociale, seppe dar vita a grandi opere, fondando il primo Ricovero per bambini lattanti in Italia e l’Associazione Generale di mutuo soccorso delle operaie e delle scuole professionali femminili.
La rassegna di queste figure femminili si conclude con Giulia Calami Modena (1816-1869) che lasciò la confortevole casa di famiglia e rinunciò ad un matrimonio di borghese convenienza per legarsi con l’attore Gustavo Modena di cui condivideva l’amore per la patria e per l’arte. La loro vita fu subito avventurosa e burrascosa con la fuga dall’Italia per riparare oltralpe, poi a Bruxelles e a Londra, dove Gustavo poté ritornare sulle scene teatrali declamando Dante. Ritornati in Italia, si lasciarono coinvolgere dalle vicende militari, in Veneto, a Milano e a Roma, nel fervore degli ideali mazziniani, Gustavo, come combattente e Giulia, rendendosi utile in tutti i modi possibili, ma soprattutto come infermiera e organizzatrice dei soccorsi e delle cure ai feriti.
Nell’insieme risulta questo un libro molto interessante dal punto di vista storico e di piacevole lettura, in quanto l’abilità dell’autrice di ricostruire e di narrare ci fa rivivere il nostro Risorgimento non solo nel tradizionale susseguirsi di eventi politici e militari, ma anche in una dimensione più umana e più vera, presentandoci le vicissitudini, le emozioni e i sentimenti di sei donne che nelle temperie di quei decenni hanno dovuto decidere della loro vita, schierarsi, prendere posizioni, sovente con difficoltà e sofferenze, dimostrando sempre determinazione, fierezza e coraggio.

Simonetta Ronco, Dai salotti alle barricate, Pietro Macchione Editore, Varese, 2024, pp. 131, € 15,00.

sabato 15 giugno 2024

RECENSIONE

 

 


Gabriele Braggion

La madre, nella narrativa di Antonio Franchini, si era affacciata una prima volta in Quando vi ucciderete, maestro? (1996), il libro sul combattimento e le arti marziali. E già allora, tra racconti di palestra e digressioni sull’eroismo, svolgeva il compito che è suo nel nuovo romanzo Il fuoco che ti porti dentro (Marsilio, 2024, pp. 222, Ɛ18): abbassare azzerare avvilire tutto ciò che, staccandosi dal piattume della realtà, può elevare verso l’arte il bello il poetico. Lo faceva allora a cominciare dal titolo. Ripreso dalla domanda che un discepolo devoto rivolge allo scrittore Mishima prima del suicidio rituale, ma rovesciato da Angela nella maledizione indirizzata a chiunque voglia veder cancellato: “Ma quando, quando t’acciri?”.
Piacere, Angela - dunque. E chissà se Franchini, quando spiega come un bersaglio favorito della madre siano le altre donne e in particolare l’ex cancelliera sua omonima (“nun facette buono Berlusconi ch’a chiammaie culo ‘e cuofano?”), ha notato che Angela Izzo è anche il femminile di Angelo Izzo, femminicida seriale la cui carriera iniziò al Circeo. Per fortuna la misoginia di Angela - uno fra i tanti difetti italiani che in lei si sommano - è tutta verbale, e possiede la comicità dirompente che producono invettiva e dialetto quando si mischiano come le polveri dei fuochi d’artificio.
Quanto alla battutaccia, Angela sta ripetendo parole che forse non furono mai pronunciate, ma tant’è: chi al tempo del governo Berlusconi s’indignava, può sempre ridere adesso: uno dei meriti del personaggio Angela è ricordarci che un fondo di bassezza ristagna in ognuno di noi. La Napoli borghese vicino a quella dei lazzaroni, gli insulti feroci e barocchi delle vasciaiole alternati alla scrittura pensosa, stirata in frasi perfette, che dà a Franchini il suo timbro inconfondibile: nel romanzo famigliare, che è anche romanzo di tutto il Sud, alto e basso si consumano allo stesso fuoco.
E se gli incipit delle storie che si sgranano intorno al tema centrale hanno qualcosa dell’antico novellare italiano (“Invece un giorno il figlio tornò ..”; “Le ho raccontato una storia …”; “Carmela era assai bella…”; “Era una vecchia che viveva da sola…”), le invettive e gli insulti raddoppiati di Angela (“puozze murì accisa, ‘sta zoccola puttana”, “… Rimini e Riccione, e tutti chilli post’ ’e merda, con un mare di merda, fangoso! Site fangosi, vuie!”) ricordano pure modelli classici, ma viene in mente piuttosto il Corbaccio, l’operetta in cui Giovanni Boccaccio, volendo ammaestrare il sapiente a tenersi alla larga dal genere femminile, compone il ritratto turpe e divertentissimo di una vedova.
Il romanzo di Angela, dicevamo, è contrappuntato di storie: ma sono le altre - quelle incontrate e non raccontate o viste solo quando si è già alla fine, secondo uno schema iniziato da Franchini in una bella narrazione di vita con i pescatori di Mazara del Vallo, racconto post-comissiano apparso tanti anni fa in “Nuovi Argomenti".
C’è la storia dello zio avvocato, modello di stile e di una virilità vittoriosa e malinconica; o quella dell’altro avvocato di provincia, uomo colto nell’eloquio quanto perduto dietro le beghe miserabili in cui si consuma la vita; o quella dell’Eroe, lo zio paterno che portava lo stesso nome dell’autore, artista promettente morto sul fronte di Cassino. Tonino Franchini pittore - lui pure personaggio di riferimento che abbiamo incontrato più volte - appare qui in forma brevissima, e lancinante come dev’essere la morte in battaglia. Il suo destino combacia con quello di un ignoto, caduto nella Grande Guerra e celebrato da D’Annunzio in una iscrizione dettata per il sacrario di Pocol: IN QUESTA TERRA DI FURORE / DOVE EGLI RICADDE RAGGIANTE DI SANGUE / PER RIMANERVI IMMAGINE DI LUCE. Ma immancabilmente, al rovesciamento e sputtanamento della retorica ha già provveduto, trenta pagine prima, Angela col riassunto impietoso della campagna di Russia del marito: “Che po’ pateto quale guerra iette a fà in Russia? La guerra d’ ’o lietto, pecché l’ammo saputo doppo chello ca sanno fà russe, bielorusse e ucraìne … Nu paese ‘e zoccole!”.
Riappare così nel Fuoco quasi tutto ciò che alimenta la narrativa di Antonio Franchini da tre decenni. Su ogni tema però posandosi uno sguardo di congedo. Perfino le arti marziali amate e praticate, con l’insegnamento a puntare dritto contro ciò che ci minaccia, appaiono smitizzate e depotenziate nella scena comica e triste di una lite agostana: gli insulti della madre come colpi reiterati e lui, il figlio, stanco e disilluso samurai che si avventa, mentre la furia si disperde contro la porta finestra di una casa di vacanza sulla costa calabrese.
Dare conto di che libro abbia voluto scrivere Franchini, quale sia la ragione ultima che lo motiva, porta a letture diverse di cui nessuna però contraddice o indebolisce le altre.
È un libro sulla famiglia. Che, se l’abbiamo avuta, sembrerebbe la storia più facile del mondo da mettere in fila e tutta in chiaro: loro sono quelli con cui hai vissuto, che hai conosciuto. Questa è la tua storia. E invece no. Quando con l’età si arriva a tirare le somme, può succedere anche che fatti, persone e ragioni di cui eravamo certissimi si dileguino (“chissà poi dopo che è successo […] forse niente di speciale, solo l’ordinario disfacimento della nostra vita”), così.
È un libro la cui linea di galleggiamento, nel senso della lingua, pesca profondamente nel dialetto, il quale, se uno lo possiede ancora almeno come suono, rinvia all’infanzia, al primo modo in cui abbiamo nominato le cose. Ed è strano allora udire il Franchini postemingueiano, scrittore dichiaratamente nemico della bravura retorica, autore di dialoghi asciutti privi di virgolette, rivolgersi qui alla madre con un “comme staie”. Come se dalla vita profonda della famiglia e del sangue, per quanto li rinneghiamo, non fosse mai possibile liberarsi del tutto.
Il fuoco che ti porti dentro, infine, è anche contemplazione della morte da parte di uno scrittore che, avendo sperimentato nella lotta il contatto con la forza e la salute dei corpi vivi, è ben attrezzato per guardare al loro disfacimento in vecchiaia con l’atteggiamento più umano - cioè a ciglio asciutto.
E si tratta di un libro con un vero e proprio finale, anche se dall’inizio alla fine non succede niente: il figlio è il figlio-scrittore che conosciamo e la madre la tempesta d’insulti che si addensa fin dalle prime pagine. In mezzo - e con questo non spoileriamo niente e nessuno - c’è una prova riuscitissima di fermare la vita. Cioè di dire come dal tutto dell’amore e dell’odio si approda al nulla, al disarmo e all’oblio. A meno che qualcuno non scriva di noi.
Perciò alla frase più impensabile che mamma italiana di figlio scrittore abbia mai profferito: “ ’o scrittore, ’o scrittore… scrittore d’ ’o cazzo, questo tu sei” credeteci senz’altro. Ma per capire, leggete fino in fondo.





martedì 23 aprile 2024

IN MEMORIA

Ricordiamo con amicizia e affetto, nonché con ammirazione per la sua produzione letteraria, 

ELIO ANDRIUOLI


che ci ha lasciati il 22 Aprile

e pubblichiamo la sua ultima poesia, di poche settimane fa,

un fiducioso inno alla vita

LA VITE AMERICANA


La vite americana arrossa i muri
screpolati del parco
(accanto le cresce superba
l'azzurra buganvillea).
S'inerpica lenta, signoreggia
questa tarda estate che muore.
L'autunno ha colori gentili,
calde tonalità che s'alternano
insensibilmente sul volto
della terra assorta e ammaliata.
Prima d'immergersi
nel suo lungo sonno invernale
la natura accende
i suoi ultimi fuochi.

Poi sarà il grande silenzio.
Ma qui la neve è leggenda,
e già ai primi di febbraio
la sensitiva mimosa s'accende
del suo oro e col suo fresco richiamo
annuncia che l'inverno è finito.
Un attimo ed è già primavera.
Esulta il cielo di rondini.
Un altro anno così è trascorso
e un po' imbianca l'anima
nel suo lento giro.
La vite americana
altera sul muro fiammeggia,
s'arrampica lieve, cancella
ogni spazio nel suo indomito slancio
verso la luce,
nel suo eterno orrore del vuoto.
Rigogliosa e ridente,
annuncia al mondo
la sua gioia e il suo stupore.

Grida il suo grazie
alla vita che vive.





RECENSIONE


Luigi Picchi

Rosa Elisa Giangoia, poetessa e letterata genovese, ha recentemente pubblicato uno saggio interamente dedicato alla presenza dei fiori nella letteratura, Fiori di parole. I fiori nella letteratura ( Sampognaro & Pupi Edizioni, Siracusa 2023, € 20,00, pp. 250).Una passione personale quella dei fiori, come pure quella per la cucina, conosciuta anche nei suoi impieghi letterari (cfr. in particolare i saggi entrambi del 2020 A convito con Dante. La cucina della Divina Commedia e Ricette nel tempo. I ricettari di cucina come genere letterario). Fiori di parole è una rassegna accurata e ricca di riferimenti, ma non pedante, sull’attenzione ai fiori nella letteratura. Si inizia giustamente con i poeti latini che sono l’humus della nostra produzione letteraria nazionale ed europea: Ovidio, Catullo e il poeta delle rose, Floro, oltre al poemetto anonimo Pervigilium Veneris. In seguito, nel Medioevo, i fiori vengono caricati di significati allegorici, simboli di vizi e virtù, con la relativa santificazione di molti di essi. Così da Bonvesin della Riva, Jacopone da Todi, dai lirici del Duecento e poi dagli stilnovisti si arriva alla dantesca paradisiaca Rosa dei Beati, senza dimenticare le valenze mariane della rosa regina dei fiori, dapprima allegoria dell’amor profano e poi sacro. Dopo Petrarca, concentrato sul lauro e sulla rosa, entriamo, soprattutto con Poliziano, nella cultura neopagana umanistico-rinascimentale con una lettura fortemente edonistica della flora. Non può mancare un capitolo sull’eliotropio di Ovidio che, però, non è lo stesso di Montale (il nostro girasole arriva dalle Americhe). Manzoni era un botanico e quindi non si può ignorare la competenza con cui arruola i fiori nella sua opera letteraria tanto poetica quanto narrativa: saliente l’episodio della vigna di Renzo in stato di abbandono. E se Leopardi è diventato famoso come il poeta del La Ginestra, Whitman con il suo epicedio per la morte del Presidente Abramo Lincoln dà fama e visibilità ai lillà. L’Ottocento vede la diffusione della camelia, fiore proveniente dal Giappone. Pascoli e Gozzano invece prestano attenzione a fiori più modesti ampliando il repertorio lirico. Il tardoromanticismo e il decadentismo promuovono fiori come l’asfodelo, l’amaranto e il crisantemo, destinato ben presto, almeno in Italia, a diventare fiore funerario. Il geranio e la rosa di Giorgio Caproni, poeta genovese poi romano d’adozione, chiudono questo meraviglioso viaggio floreale, questo percorso attraverso il giardino che è la Letteratura dove i poeti, in una festa di colori e profumi, come api bottinatrici, volano di fior in fiore.

Il segno, aprile 2024