mercoledì 11 dicembre 2024

RECENSIONE


Biagio Coco

Per quanto possano apparire prosaici rimandi alla quotidianità, i cibi e le bevande, gli spazi della cucina e della tavola, le dinamiche dei pasti e le occasioni conviviali, con le loro relazioni, sono indiscutibilmente segni e ‘ingredienti’ di universi compositi di significati che è possibile rinvenire in numerosi testi letterari antichi e moderni, in manifestazioni artistiche figurative e filmiche di epoche diverse, come anche nell’opera di molti scrittori ormai classici della letteratura italiana del Novecento. Partendo da queste considerazioni Franco Zangrilli nel saggio Muse della tavola rivolge la sua puntuale indagine critica all’opera narrativa di Tozzi, Savinio, Pavese, Levi, Calvino e Tabucchi (destinando il settimo e ultimo capitolo agli scrittori di oggi e ai cibi della cucina postmoderna) e ci invita alle tavole di questi autori, definendone, come fa nel titolo di ciascun capitolo, le inconfondibili atmosfere.

Vere e proprie ‘muse’  capaci di raccontare e rappresentare la vita, la materia cibaria e le bevande sono per questi scrittori contrassegno identitario utile a descrivere l’ambientazione sociale e l’evoluzione storica delle vicende narrate; forniscono l’occasione per presentare le situazioni biografiche, gli aspetti caratteriali e gli stili di vita dei personaggi, evidenziandone tanto le aspirazioni quanto le inquietudini; diventano lo strumento attraverso cui questi autori rendono manifesta la propria visione del mondo e alimentano la propria ispirazione a parlare di altri argomenti su ben più alti “piani d’universalità” (p.15); ma riescono anche, in ultima istanza, a farsi simbolo del processo creativo, quando non anche di quella ‘fame per la vita’ e di quella ‘sete di sapere’ che alimenta e sostanzia la scrittura.

In questa serie di ideali inviti gastronomici d’autore, se Tozzi ricorre ai termini culinari per presentare il carattere contradditorio dei suoi personaggi, se narra del loro rapporto infelice con il cibo e carica il mondo della tavola dei sapori dell’amarezza e della drammaticità, è per servirci una vivanda ossimorica. Nella trattoria in cui è ambientato il romanzo Con gli occhi chiusi Domenico Rosi con il suo carattere ambiguo e irascibile “rende la trattoria uno spazio dell’aggressione e della violenza” (p.23); al contrario di ciò che dovrebbe essere, essa viene presentata come un luogo in cui si muovono cuochi e avventori trascurati e primitivi, in cui prevalgono gli scarti dalla dimensione ordinaria del comportamento e dei sentimenti; un luogo da cui Pietro, figlio di Domenico, evaderà dopo aver attraversato la sua ‘famelica’ passione per Ghisola. In maniera ancora più evidente nel romanzo Tre croci la tavola si fa specchio rovesciato dell’ignavia e degli egoismi dei tre fratelli Gambi che si indebitano “per sostenere le spese eccessive dei piaceri-vizi-peccati della gola” (p.35) e dietro la noncurante e ‘allegra’ consumazione dei loro pasti, mascherano il mantenimento di uno status sociale ormai compromesso e vivono abulici nella trappola dell’autodistruzione.  L’identificazione ossimorica’ tra la materia del cibo e il destino del personaggio è presente anche in molti racconti dello scrittore senese, dove il cibo e il vino non riescono a sfamare sensi di colpa e solitudini e si fanno metafora di una tragica mancanza di affetti.

La tavola di Savinio è un mosaico di incomunicabilità. È disunita e i commensali che la popolano si servono con indifferente distacco, rimuginando sui propri pensieri e appetiti, “assenti o assorti nelle proprie chimere” (p.70). Come nel romanzo La casa ispirata, dove, tra le presenze ‘mangianti’ di un’insolita abitazione parigina, la successione dei pranzi e delle cene assume i contorni di uno scenario surreale volto ad esprimere le anormalità dei convitati che la popolano, dando vita, per usare le parole dello scrittore, ad un “convito di necrofagi” (p.70). Sgradevole, putrido, marcio è anche il cibo consumato: una raffigurazione con toni orrendi, gotici conditi di ironia amara in cui “la degenerazione dell’universo gastronomico allegorizza il degrado attuale della società, della cultura, della conoscenza” (p.71). Il tema della tavola, nella produzione successiva di Savinio si fa “ossessivo” (p.86): nei racconti della raccolta Il signor Dido, ultima maschera dello scrittore, veicola più complessi ed eterogenei messaggi della condizione esistenziale dell’uomo e del processo meta-artistico della scrittura. Così, la tavola, domestico campo di battaglia, si farà metafora di tutte le guerre (Genitori e figli); un pranzo troppo abbondante non permetterà che vengano affrontati argomenti più elevati, lasciando Dido in preda all’amara constatazione di non essere stato in grado di “cucinare il piatto della scrittura” (p.94); e la minor quantità di cibo che l’uomo è costretto a mangiare per ragioni di salute (Piatto piccolo) ci confermerà, anch’essa, la “profonda decadenza dell’io” (p.87).

I numerosi riferimenti al cibo presenti nell’opera di Pavese, a cui è dedicato il capitolo successivo, sono solo in apparenza realistici: veicolano un groviglio di messaggi propri della poetica dello scrittore che li rende un alimento mitico-fantastico. Al centro dell’analisi di Zangrilli campeggia il confronto tra Paesi tuoi e La luna e i falò. Nel primo romanzo, in una “realtà campagnola […] tagliata fuori dalla civiltà” (p.100) per Berto e Talino il cibo si fa epifania di messaggi archetipici e mitici. Dove la terra mangia come e più degli uomini, dove essa li nutre materna con le sue colline-mammelle e i riti della vendemmia e della campagna sono vivi delle perenni mitologie agresti, è inevitabile che Gisella, amata da Berto, sia mela, ciliegia, sia “fatta di frutta” (p.104); come è inevitabile che il suo brutale omicidio, frutto di un’incestuosa gelosia, non interrompa il pasto successivo e non intacchi la natura ferina dell’essere umano. Nel romanzo La luna e i falò, invece, seguendo il ritorno di Anguilla al paese natale, la natura simbolica del cibo viene ripresa e diversamente modulata ora in chiave mitico-fiabesca ora in chiave fantastica. Sul binario di una doppia visione tra la favola della giovinezza e la rielaborazione fantastica del presente, il protagonista rivede i luoghi della sua infanzia, i sapori del passato, ritrova l’amico Nuto che ha saputo custodire la memoria dei luoghi e il sapore dei valori di saggezza e altruismo anche nel presente. E in ciascuna delle esperienze vissute, i cibi reali e metaforici riassaporati da Anguilla non smettono di essere referenti della portata fantastica della vita.

Nell’analisi di Se questo è un uomo, contenuta nel capitolo Levi: nutrimento di tempi orrifici l’assenza di cibo, la fame e la sete sperimentate nella realtà atroce e del lager hanno una rilevanza notevolissima, a partire dal pane che non solo è allusivo di tutti i cibi che non si possono mangiare, ma diventa anche “un deuteragonista o una sorta d’ombra fantasmatica o un incubo orroroso” (p.141). Zangrilli evidenzia con raffinata puntualità come la narrazione di Levi denunci, attraverso l’assenza di cibo, nutrimento fisico e spirituale, la perdita della normalità e della dignità dell’essere umano; sottolinea poi come la sua scrittura sfrutti i mezzi umoristici della “sovversione, della giustapposizione, dell’antinomia” (p.154) proprio per descrivere la condizione in cui l’uomo sembra ridursi a coincidere con la sua stessa fame. Ci presenta così gli uomini che recuperano il cibo nella dimensione onirica, quelli che lo usano come ‘moneta’ di scambio per sopravvivere trasformandosi in tragici antieroi:  nel campo di sterminio, vero e proprio ‘regno’ della fame, il cibo consumato in piedi enfatizza la degradazione dell’essere umano ad una dimensione bestiale. Nel testo successivo, La tregua, la fame, il freddo e la guerra si confermano sinonimi delle miserie dell’uomo e del dolore dell’esistenza, ma durante questo viaggio di ritorno le occasioni conviviali sono anche l’occasione per ritrovare e ristabilire rapporti umani, riassaporare la libertà e una normalità in cui “mangiare” coincide con il “raccontare” (p.169).

Alla tavola di Calvino si possono trovare vivande di stagioni diverse quante sono le età della vita, le fasi compositive attraversate dall’autore e i periodi vissuti dalla società italiana dal secondo dopoguerra in poi. Operando una sapiente quanto ironia riscrittura di topoi letterari, Calvino trasforma i riferimenti al cibo in articolati paradigmi di istanze conoscitive e di motivi sociali, in modelli della “sete cognitiva e creativa” dei suoi personaggi (p. 207), in immagini segniche con cui interpretare la società contemporanea. Si fornisce qualche ‘assaggio’ delle numerose opere prese in esame da Zangrilli. Il linguaggio gastronomico nel romanzo Il sentiero dei nidi di ragno serve diffusamente a narrare le vicende del giovanissimo Pin, divenendo cruda metafora della sua conoscenza della vita e del mondo degli adulti; è utilizzato per descrivere la tragedia della guerra che distrugge i raccolti e affama gli uomini, ma testimonia anche il bisogno di protezione e affetto paterno che il ragazzo troverà nel partigiano Cugino e nella sua mano “fatta di pane” (p.180). Nel Barone rampante troviamo un altro adolescente (Cosimo Piovasco) e un’altra epoca (il 1776). Dopo aver rifiutato le detestate pietanze a base di lumache ed essere stato cacciato da tavola con asprezza dal padre, Cosimo si rifugia a vivere sugli alberi: “un intricato rifiuto simbolico” (p.199) che unisce il gusto per la contestazione al desiderio del giovane di crearsi una propria identità. In questa libertà alimentata dai ‘sapori’ fantastici di Cosimo, tra una capanna sugli alberi che si fa “reggia” e i frutteti che sembrano animarsi, prendono vita le sue nuove istanze sociali, il suo gusto per la libertà e per la giustizia, e la sua sete di conoscenza non può che concludersi oltre, sopra il mare. Così con le raccolte di racconti che hanno come protagonisti Marcovaldo e Palomar, dove tra passato e presente, i cibi come gli stessi personaggi diventano emblemi del consumismo, della società italiana del dopoguerra e della condizione postmoderna, tra funghi velenosi e fiumi blu, ammalianti supermarket e musei di formaggi, emblemi di una conoscenza sempre più astorica, effimera, inconsistente.

L’ultimo invito d’autore è quello di Tabucchi. Frutto di due tradizioni culinarie diverse, quella spagnola e quella portoghese, perfettamente note allo scrittore, la sua tavola di intellettuali e fantasmi non solo rivisita e recupera le pietanze tradizionali del passato ponendole a confronto con le abitudini alimentari contemporanee, ma impasta attraverso il cibo ben più stratificate dialettiche. Accade in Requiem dove il protagonista in giro per le vie di Lisbona, nell’attesa di incontrare a mezzanotte il fantasma del “grande poeta” immagina di vedere persone ormai defunte, di parlare con loro, di salutarle in un ideale commiato, in una successione di fantasmatici incontri costellata di occasioni conviviali e conoscitive attraverso i quali si ha l’impressione che Tabucchi “stia costruendo un variopinto banchetto letterario” (p. 237). Così, in un tempo in cui le ricette antiche sono soggette a inevitabili variazioni, mentre i piatti della tradizione perdono la memoria del passato per venire incontro ai gusti contemporanei, ora che ogni piatto è l’amalgama di elementi oggettivi e della creatività individuale, l’incontro con il Poeta non può non avere al centro “l’intricata relazione tra il modernismo e il postmodernismo (pag. 239) e svolgersi di fronte ad una tavola con il suo menu che è una ‘carta poetica’, dell’inquietudine e dell’incertezza. In Sostiene Pereira, in una Lisbona sotto il regime dittatoriale di Salazar, mentre ‘tutta l’Europa puzza di morte’, il vecchio giornalista Pereira, preda dell’obesità, soffocato e rallentato dai ricordi del passato, si illude di curare la solitudine e le ferite dell’anima per la perdita della moglie attraverso un rapporto autodistruttivo con il cibo. Nel suo bisogno di socialità, la tavola si fa inevitabilmente segnica: del suo disagio esistenziale (che si manifesta nella consumazione sempre delle stesse pietanze per lui non salutari, quali limonata e omelette alle erbe aromatiche); del suo immobilismo (visibile nella frequentazione degli stessi luoghi come la sua stanza-redazione ammorbata dal puzzo di frittura dei piatti cucinatigli dalla portinaia o il Cafè Orchiedea che abitualmente frequenta); della sua angoscia (nella lotta con il cibo e nel rifiutarsi di seguire i consigli dei medici). La progressiva conoscenza di un giovane giornalista, Monteiro Rossi, suo alter ego “agile e magro”, come anche la cena in cui Pereira, che dà ospitalità e rifugio al giovane uomo, deciderà di assumere la “veste di cuoco” (p.255), ritrovando la capacità umana e meta-artistica di immaginare e creare nuovi piatti, non renderanno vana la tragica uccisione del giovane giornalista ad opera di funzionari della polizia segreta. Pereira sarà capace di “denunciare i mali del suo tempo” (p. 256) e di fuggire in un paese democratico.

Il capitolo conclusivo del saggio di Zangrilli non è dedicato ad un autore, ma ad un libro singolare, Dai fiori del male ai fiori di zucca, un testo collettivo ed “enciclopedico degli aspetti del cibo nella società postmoderna” (p.268) costituito da centotrentotto componimenti realizzati per lo più da autori e autrici campani assieme ad altre pagine di scrittori di epoche diverse e raggruppati in sezioni che riproducono la successione delle vivande di un pranzo. Zangrilli presenta i tratti comuni a questi testi, in molti casi brevi e aventi la forma di una nota o di un paragrafo: la prosa chiara e incisiva, l’utilizzo del paradosso, della caricatura, “dell’ironia che mentre intrattiene demitizza” (p. 269), l’ispirazione della riscrittura di moduli e temi della tradizione letteraria, la memoria. Partendo dalla dimensione realistica di cibi e bevande, questi testi costruiscono storie dai risvolti più ampi e di taglio universale, volti a scavare nella dimensione tragica della vita, indagando ora i motivi dell’amore e della separazione degli amanti (“I felafel”, “Mais”), ora quelli del rapporto tra cibo e sesso (“Dopo cena”, “Lasagna classica napoletana”), la tematica del tradimento con i suoi toni umoristici (“Il purpo ‘mbuttunato”), la favola dell’orrore e il tema dell’antropofagia (“Il pane rituale”). Del resto, anche nella contemporaneità, mentre gli individui sperimentano la “vertiginosa trasformazione della vita dei tempi attuali” (p. 287), sempre più privi di coscienza storica, sempre più incoerenti, il cibo non smette di esprimere “lo stato psicologico dell’individuo” (p. 289) o, come dice Calvino, il “senso d’una mancanza, d’un vuoto divorante”.

FRANCO ZANGRILLI, Muse della tavola. Cibi e bevande in scrittori contemporanei, Pesaro, Metauro Edizioni, aprile 2024, pp. 299, € 24,00.

 


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