Luigi Picchi
Una
promessa mantenuta, questa raccolta del poeta ligure, un’ulteriore
testimonianza di fedeltà, una fedeltà tutta lirica che risale al Montale di Ossi
di seppia o al Poema del mare di Ettore Cozzani: «Non finirò di
scrivere sul mare. / Non finirò di cantare / quello che c’è in lui di estatico
/ quello che c’è in lui di abissale / la sua vanità disumana / senza
pesantezza, senza un vero confine / la sua aridità senza sete / senza spine /
le sue forme in perenne mutamento / sottomesse alle nuvole, al vento / e al
cammino in cielo della luna». L’intera silloge infatti è incentrata sul mare,
cantato come un interlocutore quasi divino: «Tu mare non hai chiese / non hai
sacerdoti, sacramenti, / non hai preghiere, monumenti / né riti né elemosine, /
e non hai avuto pietà. / Eppure sei sacro, divino». Anche fino alla preghiera:
«Mare su cui si affacciano gli ulivi / tra rocce ripide e riflessi del sole /
mare che hai udito le parole di Omero e di Odisseo / mare che canti come le
cicale / che ho attraversato quando ero bambino / tra scilla e Cariddi, sotto
stelle di sale / mare che vide Goethe quel mattino / tutto d’oro come alberi di
limone. / Oggi sei il mare dei morti, la prigione / dei tanti annegati tra i
migranti. / Rinasci, Mediterraneo, con i tuoi canti / incolpevoli, unisci, non
separare / ricorda agli uomini d’Europa la tua legge: / essere mutevole, alzare
le vele, amare». Un mare, quello di Conte, emblema di tutta la vita, la
vitalità, ma anche mortale, distruttivo e sterile, vera Coincidentia
oppositorum. Ma quello che mi ha commosso è l’ammissione da parte del poeta
della propria fragilità umana, una confessione quasi sbarbariana: «Sono più
solo di tutti, mare, persino di te. / […] / io un fragile figlio di donna / una
medusa spiaggiata, un ramo sfiorito». Proprio questa miscela di entusiasmo
vitalistico e pervadente malinconia esistenziale, trovo sia in un certo senso
la cifra di questo libro maestoso e dolente, epifanico ed elegiaco, sintesi matura
del credo e della poetica del Nostro. Queste poesie, unite tra loro da un fil
rouge poematico eminentemente mitomodernista, ci portano in altre epoche da
Omero a Byron e ci fanno viaggiare dalla California all’India, dalla Liguria
all’Atlantico, eppure l’alfa e l’omega di tutta questa avventura
spaziotemporale è sempre il presente e la Riviera. L’afflato, ora whitmaniano
ora dannunziano ora luziano ora alla Lawrence, non impedisce al poeta di
cogliere alcuni aspetti squallidi e tragici della contemporaneità,
indimenticabili: la desolazione di un vecchio abbandonato e solo, la spocchia
di alcuni avventori modaioli di un bar, l’ebetudine catatonica di un adolescente
chiuso al mondo con i suoi auricolari, il dramma e la disperazione dei migranti
in balia di pericolose e letali traversate. Come non mancano neppure gli
affetti e le memorie familiari: la madre o il nonno o il figlio mai avuto. C’è
poi una poesia particolarmente originale, Odisseo internauta, dove il
poeta coglie la novità inumana e alienante della Rete, spesso trappola
diabolica per l’anima assuefatta con le sue navigazioni compulsive e droganti: «Ora
il mio mare è questo. Non lo solco / più con la mia galea dall’alta velatura /
né sulla zattera impazzita alla deriva. / Non ho di fronte nessuna isola
sicura. / Non c’è all’orizzonte anima viva. / È un mare senza onde, senza
sponde / non soffiano il meltemi né il maestrale / non vedo in superficie
delfini che saltano / né meduse e coralli sul fondale. / È un mare così,
piatto, frontale / su uno schermo che si accende, irretito / da immagini che
appaiono e scompaiono /basta la punta leggera del mio dito. […] Non mi
aspettano né la Troade né la Colchide. / Né Elena, né Achille né il Vello
d’Oro. / Tutto è presente, uguale, effimero. / […] Io sono qui, seduto, solo,
irretito, / irreale. Non ancora morto né più vivo. /Sono l’internauta.».
Giuseppe Conte è il poeta che ha la capacità di trasformare nel centro del
mondo la sala d’attesa di un aeroporto durante uno scalo o il tavolino del bar
dove si ferma a bere un caffè e a scrivere una poesia sul proprio taccuino.
Giuseppe Conte, Non finirò di scrivere sul mare, Mondadori, Milano 2019, pp. 150, € 18,00.
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