– “segregata all’ombra
delle mura di casa” –
nell’inconsueta veste di medievale “ménestrel” (o cantastorie), dedita a recitare e cantare il suo encomiastico poemetto protratto con disinvolta e arguta grazia.
Spiegazione illuminata è quella offerta da Termanini per il titolo: a suo dire, esso delimita e indica con persuasiva certezza “il perimetro difensivo della città antica, il cuore, l’essenza, l’identità di Genova” (pag. 87).
Nella sua “Prefazione”, con estrema e rigorosa chiarezza, la prefatrice Rosa Elisa Giangoia puntualizza dell’autrice la capacità creativa di “una geografia del possibile che amplia tutte quelle che sono le nostre prerogative abituali, infrangendo confini e superando distanze” (pag. 5); quindi rintraccia come nei versi della Pizzorno “la città di Genova si carichi di una forza storica e umana dirompente e diventi luogo di esperienze fondanti dell’esistenza umana” (pagg. 6-7) di grandi personaggi del passato e del presente, ma anche della sua personale; conclude, infine, affermando e sostenendo che proprio per tali motivazioni “il poemetto Le antiche mura appare come un motivato e valido omaggio a Genova, ma anche – e mi trovo d’accordo – come un fiducioso auspicio” (pag. 9).
Termanini nella sua “Nota di lettura” ripensa, se non tutti, almeno magna pars dei contenuti del poemetto e, meritoriamente, ripercorre all’unisono la davvero copiosa attività letteraria, in prosa e in poesia, della Pizzorno.
Inoltre, e segnatamente lo colgo come pregio critico-ecdotico, pone l’accento, oltre che sui binomi speculativo-concettuali “movimento-viaggio” (tipico topos pizzorniano) e “lentezza-meditazione poetica”, sull’interessante punto di vista “prigionia-assenza” connesso al covid 19, che per la nostra autrice – qui sta il punto di estrema verità – da status sommamente negativo e dannoso si fa circostanza positiva e felice.
Non manca di riportare a riprova quanto segue: “L’assenza della gioia del libero godimento della propria città, perché reclusi a causa della pandemìa, è, per converso, quasi un’occasione.” (pag. 81) e prosegue nei seguenti termini di veridicità: “Rita Parodi Pizzorno la coglie: per riscoprire la profondità delle proprie radici, l’intimo legame con il «suolo natìo»” (ib.).
E vengo ora direttamente all’autrice, Rita Parodi Pizzorno, la quale, instancabile nel suo lavoro di scrittrice al pari di tante altre “personalità ispirate e creative”, non s’è lasciata affatto sopraffare da “un ospite indesiderato” (I, v. 549, pag. 41): il covid 19, dilagante ovunque a diffondere “l’angoscia, lo sgomento” (ib., v. 550), ma ha reagito con la sua mente e nella sua mente percorrendo a passo talvolta affaticato ma sicuro e a voce spiegata – come l’antico trovatore – un diffuso, affascinante e inarrestabile viaggio nel tempo e fuori del tempo, lungo le secolari vicende che costituiscono la grande storia della sua città natale, la superba Genova circoscritta tra
“le antiche mura di pietra
annerite dai secoli”
(I, vv. 1-2, pag. 13),
unendo e inserendo passim il vissuto delle sue personali esperienze di vita giovanile.
D’acchito ho pensato altresì all’albionica Virginia Woolf e alla sua “A Room of One’s Own” (“Una stanza tutta per sé) che, in tempi forse, sotto tanti aspetti, ancor più misogini di quelli odierni, a ragione propugnava “a woman must have… a room of her own”: a intendere che la donna scrittrice, come ogni singola donna, ha l’inalienabile e sacrosanto diritto di avere, oltre ad altre sue personalissime cose, in ispecie una stanza tutta sua e solamente sua, adibita a “locus amoenus” ad altri impenetrabile.
Ed io – seduta alla sua scrivania e tutta intenta alla sua composizione – la vedo la nostra scrittrice riempire fogli su fogli di pensieri espressi in versi liberi, accurati e non privi di cadenzata musicalità, che diventano corposa narrazione e descrizione di fatti storici misti, come detto, alle evenienze della sua vita: il tutto cantato e narrato non in successione cronologica, bensì senza un ordine o un assetto prestabilito.
Tuffata, nel suo “grand tour” mentale, in una storia globale e onnicomprensiva la poetessa aspira a cantare e raccontare “per versi”, fluidi e distesi, un lunghissimo viaggio che ha, se si vuole delinearlo altrimenti, l’andamento di un altrettanto lunghissimo “daydream”, vale a dire un sogno ad occhi aperti fantastico e realistico insieme, fantasioso e in una concreto, sollecitato dall’isolamento coatto e timoroso, a proposito del quale l’autrice così si esprime:
“Mi rifugio nel mio passeggio
immaginario e misterioso
per non incontrarmi
con un ospite indesiderato”
(I, vv. 546-549, pag. 41)
e, al pari e sulle orme – peraltro citato a pag. 17 – dell’annalista Caffaro, ma qui in versi, naviga a vista, ma sicura tra le secche di una millenaria realtà storica, storicamente accertata e storicamente indagata dal più lontano ieri a lei suggerito mentre “a passo lento e affaticato” ((I, v. 168, pag. 22) sale i viali alberati dell’Ospedale San Martino, sulle cui alture, così prosegue nella narrazione:
“sorge solitario e ombroso
il castello di Simone Boccanegra,
presenza metafisica
del primo doge di Genova.”
(I, vv. 177-180, pag. 22)
al più recente oggi in cui con acre dolore rammenta l’amara tragedia del ponte Morandi che ha provocato ben 43 vittime innocenti e che mi piace qui riportare nella sua crudezza a cui l’autrice porge nel contempo fredda analisi e sapore preromantico:
“Era un’alba grigia e nebbiosa,
una tempesta di pioggia e fulmini
imperversava al nostro risveglio…
quando il ponte Morandi crollò.
Increduli si guardava quel vuoto:
“Impossibile!”
Afflitti ma non vinti...”
(I, vv. 113-119, pag. 19)
La cronaca poematica della Pizzorno, in cui si succedono senza sosta e senza soluzione di continuità fatti tutt’altro che oscuri, personaggi illustri e significativi momenti della sua vita più personale, comprende quasi milleduecento versi (1.196 per la precisione), suddivisi in due sezioni:
*più ampia la prima sezione che, sviluppandosi da pagina 13 a pagina 50, conta ben 715 versi;
*più contenuta la seconda sezione che si estende da pagina 51 a pagina 76 e annovera 481 versi.
L’andamento calmo e solenne di cantabile, piano e discorsivo nell’eloquio, risulta di facile presa e di immediata lettura riuscendo a dar vita e con linea garbata a favorire una piacevole e totale immersione nelle vicende storiche del passato e del presente ivi narrate con sincerità d’animo e senso di convinta e orgogliosa identificazione con la storia: si veda, ad esempio, l’insistenza anaforica del possessivo nei sette versi che si leggono a pagina 45 e che la completano.
A questo punto sono spinto a evocare, non solo “dalla cintola in su”, ma in tutta la loro possanza e possente immagine, storiche e potenti figure che emergono drammaticamente ed energicamente:
- da un lato ecco gli sfortunati e sconfitti Gian Luigi Fieschi e il figlio Giannettino, entrambi
“immolati sull’ara del sacrificio
da una congiura funesta”
(I, vv. 233-234, pag. 25)
- dall’altro, volitivo e grave, s’impone “il principe-ammiraglio” (ib. v. 237, pag. 25) Andrea Doria (perché non D’Oria?) dalla “forte tempra” (ib, v. 225, pag. 24), del quale, nominato “Padre e Difensore della Patria”, la scrittrice non solo sa cogliere dal noto ritratto “l’espressione grave” (ib.) e “una ferrea volontà” (ib.), ma altresì ne riferisce come segue:
“Difese la città:
represse le congiure,
compiute le vendette,
si conquistò
l’appoggio dei Genovesi."
(I, vv. 227-231, pagg. 24-25)
aggiungendo che, scoperto il complotto,
“La repressione di Andrea fu cruenta:
la confisca dei feudi,
la condanna dei congiurati,
l’assedio del castello di Montoggio
distrutto per sempre.”
(ib., vv. 242-246, pag. 25)
La medesima repressione e la medesima distruzione da parte del filospagnolo anniraglio subirà la filofrancese Savona che, arresasi dopo lungo assedio, una volta sottomessasi subirà l’onta di vedere il suo porto irreparabilmente interrato e annientato.
All’autrice tanto nome non può non richiamare però l’infausto e luttuoso episodio, nel 1956, del subitaneo affondamento del transatlantico “Andrea D’Oria, regina dei mari” (ib., v. 259, pag. 26) che “Ora giace in fondo all’oceano” (ib., v. 263), ribadito con partecipato dolore da chi ne vide il varo: “Ora giaci in un profondo abisso” (II, v. 349, pag. 69).
E nel proseguimento del suo convincente storico resoconto ecco, con tutta la sua fascinosa cronistoria di ospitalità,
“La Commenda si svela improvvisa
solenne nel suo triplice loggiato”
(ib, vv. 331-332, pag. 29)
Ma per chi voglia rileggerla, in “Nota di lettura” – ne indicherò alcuni – si toccano svariati altri segnali presenti nel poemetto e meritevoli di nota perché dell’autrice sanciscono memoria poetico-narrativa e capacità di connubio “tale da rendere il passato presente” (pag. 103).
Essi sono
- “la città in salita” (pag. 100) di tinta caproniana con le sue “tortuose salite e ripide scalinate” (II, v. 3, pag. 51);
- il richiamo a “viaggiatori, scrittori e poeti che visitarono Genova (e la Liguria)” (ib.): ad essi e a Genova dedicò più d’una pubblicazione lo scrittore e saggista Giuseppe Marcenaro, citato in nota a pag. 105;
- il porto ove le gru ormai disoccupate (pag. 101) agli occhi della poetessa appaiono “braccia tese al cielo” (II, v. 50, pag. 53);
- la spiaggia e il mare d’antàn della Foce nelle cui acque, foscolianamente, giacque il corpo dell’autrice (pag. 102), allora ancora “acerba ninfa” (II, v. 114, pag. 57);
- Staglieno rievocato anche da E.L. Masters, all’interno della sua “Spoon River Anthology” (pag. 104), come il “Camposanto” par excellence, di cui l’autrice offre note estese e precise (pag. 59 e sgg.);
- il Bisagno delle disastrose alluvioni, per lei “furioso color del fango” (II, v. 259, pag. 64), già visto, indovinato e descritto in tali termini anche da Stendhal (pag. 105);
- “l’antica abbazia di San Giuliano” (II, v. 403, pag.73): valeva forse la pena ricordare che vide la presenza e fu rifugio di un Guido Gozzano in cerca di sollievo fisico e di pace interiore (pag. 107).
Serpeggia, celato nell’opera, anche il rimpianto per la perduta età della propria giovanezza: rimpianto posto in essere e in evidenza nella chiusa terminiana e che si fa cogente necessità, specie coll’avanzare dell’età di ognuno, della riappropriazione del tempo trascorso.
E molti altri ancora sarebbero i loci poematici toccati tanto in “Prefazione” dalla Giangoia quanto in “Nota di lettura” da Termanini: indubbiamente varrebbe la pena citarli tutti, ma son certo che saprà coglierli il lettore a sue spese, tuffandosi a capofitto nella lettura di “Le antiche mura”.
E che aggiungere, in chiusura, a proposito delle magiche e selezionate illustrazioni, una decina scarsa?
Esse, che hanno lo stesso colore annerito della pietra delle antiche e solide mura genovesi, si devono all’artistica e ricercata matita di Elisabetta Sacchi Nemours.
Con le loro linee decise e marcate sgorgano dalle pagine e le stipano con la forza invadente propria di magistrali incisioni suggestivamente descritte e dettagliatamente delineate nei minimi particolari, ricreando de visu costruzioni, edifici, portici, monumenti e altro ancora, a ideale e malioso contorno dei versi distesamente cantati dall’autrice.
Un’ultima annotazione merita l’accurata e luminosa prima di copertina che riporta la vigorosa immagine di “San Giorgio/mentre trafigge il drago” (I, vv. 591-592, pag. 43), il cui abile restauro lo si deve a Raimondo Sirotti scomparso di recente.
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RITA PARODI PIZZORNO, Le antiche mura. Prefazione di Rosa Elisa Giangoia. Nota di lettura di Stefano Termanini. Disegni di Elisabetta Sacchi Nemours. Serel International, Genova, Stefano Termanini Editore, 2021, pp. 108, € 12,00.