Biagio Coco
Per quanto possano apparire prosaici rimandi alla quotidianità, i cibi e le bevande, gli spazi della cucina e della tavola, le dinamiche dei pasti e le occasioni conviviali, con le loro relazioni, sono indiscutibilmente segni e ‘ingredienti’ di universi compositi di significati che è possibile rinvenire in numerosi testi letterari antichi e moderni, in manifestazioni artistiche figurative e filmiche di epoche diverse, come anche nell’opera di molti scrittori ormai classici della letteratura italiana del Novecento. Partendo da queste considerazioni Franco Zangrilli nel saggio Muse della tavola rivolge la sua puntuale indagine critica all’opera narrativa di Tozzi, Savinio, Pavese, Levi, Calvino e Tabucchi (destinando il settimo e ultimo capitolo agli scrittori di oggi e ai cibi della cucina postmoderna) e ci invita alle tavole di questi autori, definendone, come fa nel titolo di ciascun capitolo, le inconfondibili atmosfere.
Vere e proprie
‘muse’ capaci di raccontare e
rappresentare la vita, la materia cibaria e le bevande sono per questi
scrittori contrassegno identitario utile a descrivere l’ambientazione sociale e
l’evoluzione storica delle vicende narrate; forniscono l’occasione per presentare
le situazioni biografiche, gli aspetti caratteriali e gli stili di vita dei
personaggi, evidenziandone tanto le aspirazioni quanto le inquietudini;
diventano lo strumento attraverso cui questi autori rendono manifesta la propria
visione del mondo e alimentano la propria ispirazione a parlare di altri
argomenti su ben più alti “piani d’universalità” (p.15); ma riescono anche, in
ultima istanza, a farsi simbolo del processo creativo, quando non anche di
quella ‘fame per la vita’ e di quella ‘sete di sapere’ che alimenta e sostanzia
la scrittura.
In questa serie di
ideali inviti gastronomici d’autore, se Tozzi ricorre ai termini culinari per presentare
il carattere contradditorio dei suoi personaggi, se narra del loro rapporto
infelice con il cibo e carica il mondo della tavola dei sapori dell’amarezza e
della drammaticità, è per servirci una vivanda
ossimorica. Nella trattoria in cui è
ambientato il romanzo Con gli occhi
chiusi Domenico Rosi con il suo carattere ambiguo e irascibile “rende la
trattoria uno spazio dell’aggressione e della violenza” (p.23); al contrario di
ciò che dovrebbe essere, essa viene presentata come un luogo in cui si muovono
cuochi e avventori trascurati e primitivi, in cui prevalgono gli scarti dalla
dimensione ordinaria del comportamento e dei sentimenti; un luogo da cui Pietro,
figlio di Domenico, evaderà dopo aver attraversato la sua ‘famelica’ passione
per Ghisola. In maniera ancora più evidente nel romanzo Tre croci la tavola si fa specchio rovesciato dell’ignavia e degli
egoismi dei tre fratelli Gambi che si indebitano “per sostenere le spese
eccessive dei piaceri-vizi-peccati della gola” (p.35) e dietro la noncurante e
‘allegra’ consumazione dei loro pasti, mascherano il mantenimento di uno status
sociale ormai compromesso e vivono abulici nella trappola dell’autodistruzione. L’identificazione ossimorica’ tra la materia
del cibo e il destino del personaggio è presente anche in molti racconti dello
scrittore senese, dove il cibo e il vino non riescono a sfamare sensi di colpa
e solitudini e si fanno metafora di una tragica mancanza di affetti.
La tavola di
Savinio è un mosaico di
incomunicabilità. È disunita e i commensali che la popolano si servono con
indifferente distacco, rimuginando sui propri pensieri e appetiti, “assenti o
assorti nelle proprie chimere” (p.70). Come nel romanzo La casa ispirata, dove, tra le presenze ‘mangianti’ di un’insolita
abitazione parigina, la successione dei pranzi e delle cene assume i contorni
di uno scenario surreale volto ad esprimere le anormalità dei convitati che la
popolano, dando vita, per usare le parole dello scrittore, ad un “convito di
necrofagi” (p.70). Sgradevole, putrido, marcio è anche il cibo consumato: una
raffigurazione con toni orrendi, gotici conditi di ironia amara in cui “la
degenerazione dell’universo gastronomico allegorizza il degrado attuale della
società, della cultura, della conoscenza” (p.71). Il tema della tavola, nella
produzione successiva di Savinio si fa “ossessivo” (p.86): nei racconti della
raccolta Il signor Dido, ultima
maschera dello scrittore, veicola più complessi ed eterogenei messaggi della
condizione esistenziale dell’uomo e del processo meta-artistico della
scrittura. Così, la tavola, domestico campo di battaglia, si farà metafora di
tutte le guerre (Genitori e figli);
un pranzo troppo abbondante non permetterà che vengano affrontati argomenti più
elevati, lasciando Dido in preda all’amara constatazione di non essere stato in
grado di “cucinare il piatto della scrittura” (p.94); e la minor quantità di
cibo che l’uomo è costretto a mangiare per ragioni di salute (Piatto piccolo) ci confermerà, anch’essa,
la “profonda decadenza dell’io” (p.87).
I numerosi
riferimenti al cibo presenti nell’opera di Pavese, a cui è dedicato il capitolo
successivo, sono solo in apparenza realistici: veicolano un groviglio di
messaggi propri della poetica dello scrittore che li rende un alimento mitico-fantastico. Al centro
dell’analisi di Zangrilli campeggia il confronto tra Paesi tuoi e La luna e i falò.
Nel primo romanzo, in una “realtà campagnola […] tagliata fuori dalla civiltà”
(p.100) per Berto e Talino il cibo si fa epifania di messaggi archetipici e
mitici. Dove la terra mangia come e più degli uomini, dove essa li nutre materna
con le sue colline-mammelle e i riti della vendemmia e della campagna sono vivi
delle perenni mitologie agresti, è inevitabile che Gisella, amata da Berto, sia
mela, ciliegia, sia “fatta di frutta” (p.104); come è inevitabile che il suo
brutale omicidio, frutto di un’incestuosa gelosia, non interrompa il pasto
successivo e non intacchi la natura ferina dell’essere umano. Nel romanzo La luna e i falò, invece, seguendo il
ritorno di Anguilla al paese natale, la natura simbolica del cibo viene ripresa
e diversamente modulata ora in chiave mitico-fiabesca ora in chiave fantastica.
Sul binario di una doppia visione tra la favola della giovinezza e la
rielaborazione fantastica del presente, il protagonista rivede i luoghi della
sua infanzia, i sapori del passato, ritrova l’amico Nuto che ha saputo custodire
la memoria dei luoghi e il sapore dei valori di saggezza e altruismo anche nel
presente. E in ciascuna delle esperienze vissute, i cibi reali e metaforici
riassaporati da Anguilla non smettono di essere referenti della portata fantastica
della vita.
Nell’analisi di Se questo è un uomo, contenuta nel
capitolo Levi: nutrimento di tempi
orrifici l’assenza di cibo, la fame e la sete sperimentate nella realtà atroce
e del lager hanno una rilevanza notevolissima, a partire dal pane che non solo
è allusivo di tutti i cibi che non si possono mangiare, ma diventa anche “un
deuteragonista o una sorta d’ombra fantasmatica o un incubo orroroso” (p.141). Zangrilli
evidenzia con raffinata puntualità come la narrazione di Levi denunci,
attraverso l’assenza di cibo, nutrimento fisico e spirituale, la perdita della
normalità e della dignità dell’essere umano; sottolinea poi come la sua
scrittura sfrutti i mezzi umoristici della “sovversione, della giustapposizione,
dell’antinomia” (p.154) proprio per descrivere la condizione in cui l’uomo
sembra ridursi a coincidere con la sua stessa fame. Ci presenta così gli uomini
che recuperano il cibo nella dimensione onirica, quelli che lo usano come
‘moneta’ di scambio per sopravvivere trasformandosi in tragici antieroi: nel campo di sterminio, vero e proprio
‘regno’ della fame, il cibo consumato in piedi enfatizza la degradazione
dell’essere umano ad una dimensione bestiale. Nel testo successivo, La tregua, la fame, il freddo e la guerra si confermano sinonimi delle
miserie dell’uomo e del dolore dell’esistenza, ma durante questo viaggio di
ritorno le occasioni conviviali sono anche l’occasione per ritrovare e
ristabilire rapporti umani, riassaporare la libertà e una normalità in cui
“mangiare” coincide con il “raccontare” (p.169).
Alla tavola di
Calvino si possono trovare vivande di
stagioni diverse quante sono le età della vita, le fasi compositive
attraversate dall’autore e i periodi vissuti dalla società italiana dal secondo
dopoguerra in poi. Operando una sapiente quanto ironia riscrittura di topoi letterari, Calvino trasforma i
riferimenti al cibo in articolati paradigmi di istanze conoscitive e di motivi sociali,
in modelli della “sete cognitiva e creativa” dei suoi personaggi (p. 207), in
immagini segniche con cui interpretare la società contemporanea. Si fornisce
qualche ‘assaggio’ delle numerose opere prese in esame da Zangrilli. Il
linguaggio gastronomico nel romanzo Il sentiero
dei nidi di ragno serve diffusamente a narrare le vicende del giovanissimo
Pin, divenendo cruda metafora della sua conoscenza
della vita e del mondo degli adulti; è utilizzato per descrivere la tragedia
della guerra che distrugge i raccolti e affama gli uomini, ma testimonia anche il
bisogno di protezione e affetto paterno che il ragazzo troverà nel partigiano
Cugino e nella sua mano “fatta di pane” (p.180). Nel Barone rampante troviamo un altro adolescente (Cosimo Piovasco) e un’altra
epoca (il 1776). Dopo aver rifiutato le detestate pietanze a base di lumache ed
essere stato cacciato da tavola con asprezza dal padre, Cosimo si rifugia a
vivere sugli alberi: “un intricato rifiuto simbolico” (p.199) che unisce il
gusto per la contestazione al desiderio del giovane di crearsi una propria
identità. In questa libertà alimentata dai ‘sapori’ fantastici di Cosimo, tra
una capanna sugli alberi che si fa “reggia” e i frutteti che sembrano animarsi,
prendono vita le sue nuove istanze sociali, il suo gusto per la libertà e per
la giustizia, e la sua sete di conoscenza non può che concludersi oltre, sopra
il mare. Così con le raccolte di racconti che hanno come protagonisti
Marcovaldo e Palomar, dove tra passato e presente, i cibi come gli stessi
personaggi diventano emblemi del consumismo, della società italiana del
dopoguerra e della condizione postmoderna, tra funghi velenosi e fiumi blu,
ammalianti supermarket e musei di formaggi, emblemi di una conoscenza sempre
più astorica, effimera, inconsistente.
L’ultimo invito d’autore
è quello di Tabucchi. Frutto di due tradizioni culinarie diverse, quella spagnola
e quella portoghese, perfettamente note allo scrittore, la sua tavola di intellettuali e fantasmi non
solo rivisita e recupera le pietanze tradizionali del passato ponendole a
confronto con le abitudini alimentari contemporanee, ma impasta attraverso il
cibo ben più stratificate dialettiche. Accade in Requiem dove il protagonista in giro per le vie di Lisbona,
nell’attesa di incontrare a mezzanotte il fantasma del “grande poeta” immagina
di vedere persone ormai defunte, di parlare con loro, di salutarle in un ideale
commiato, in una successione di fantasmatici incontri costellata di occasioni
conviviali e conoscitive attraverso i quali si ha l’impressione che Tabucchi
“stia costruendo un variopinto banchetto letterario” (p. 237). Così, in un
tempo in cui le ricette antiche sono soggette a inevitabili variazioni, mentre i
piatti della tradizione perdono la memoria del passato per venire incontro ai
gusti contemporanei, ora che ogni piatto è l’amalgama di elementi oggettivi e
della creatività individuale, l’incontro con il Poeta non può non avere al
centro “l’intricata relazione tra il modernismo e il postmodernismo (pag. 239)
e svolgersi di fronte ad una tavola con il suo menu che è una ‘carta poetica’,
dell’inquietudine e dell’incertezza. In Sostiene
Pereira, in una Lisbona sotto il regime dittatoriale di Salazar, mentre
‘tutta l’Europa puzza di morte’, il vecchio giornalista Pereira, preda dell’obesità,
soffocato e rallentato dai ricordi del passato, si illude di curare la
solitudine e le ferite dell’anima per la perdita della moglie attraverso un
rapporto autodistruttivo con il cibo. Nel suo bisogno di socialità, la tavola
si fa inevitabilmente segnica: del suo disagio esistenziale (che si manifesta
nella consumazione sempre delle stesse pietanze per lui non salutari, quali limonata
e omelette alle erbe aromatiche); del suo immobilismo (visibile nella
frequentazione degli stessi luoghi come la sua stanza-redazione ammorbata dal
puzzo di frittura dei piatti cucinatigli dalla portinaia o il Cafè Orchiedea
che abitualmente frequenta); della sua angoscia (nella lotta con il cibo e nel
rifiutarsi di seguire i consigli dei medici). La progressiva conoscenza di un giovane
giornalista, Monteiro Rossi, suo alter ego “agile e magro”, come anche la cena
in cui Pereira, che dà ospitalità e rifugio al giovane uomo, deciderà di
assumere la “veste di cuoco” (p.255), ritrovando la capacità umana e
meta-artistica di immaginare e creare nuovi piatti, non renderanno vana la
tragica uccisione del giovane giornalista ad opera di funzionari della polizia
segreta. Pereira sarà capace di “denunciare i mali del suo tempo” (p. 256) e di
fuggire in un paese democratico.
Il capitolo
conclusivo del saggio di Zangrilli non è dedicato ad un autore, ma ad un libro singolare,
Dai fiori del male ai fiori di zucca,
un testo collettivo ed “enciclopedico degli aspetti del cibo nella società
postmoderna” (p.268) costituito da centotrentotto componimenti realizzati per
lo più da autori e autrici campani assieme ad altre pagine di scrittori di
epoche diverse e raggruppati in sezioni che riproducono la successione delle
vivande di un pranzo. Zangrilli presenta i tratti comuni a questi testi, in
molti casi brevi e aventi la forma di una nota o di un paragrafo: la prosa
chiara e incisiva, l’utilizzo del paradosso, della caricatura, “dell’ironia che
mentre intrattiene demitizza” (p. 269), l’ispirazione della riscrittura di
moduli e temi della tradizione letteraria, la memoria. Partendo dalla dimensione
realistica di cibi e bevande, questi testi costruiscono storie dai risvolti più
ampi e di taglio universale, volti a scavare nella dimensione tragica della
vita, indagando ora i motivi dell’amore e della separazione degli amanti (“I
felafel”, “Mais”), ora quelli del rapporto tra cibo e sesso (“Dopo cena”,
“Lasagna classica napoletana”), la tematica del tradimento con i suoi toni
umoristici (“Il purpo ‘mbuttunato”), la favola dell’orrore e il tema
dell’antropofagia (“Il pane rituale”). Del resto, anche nella contemporaneità,
mentre gli individui sperimentano la “vertiginosa trasformazione della vita dei
tempi attuali” (p. 287), sempre più privi di coscienza storica, sempre più
incoerenti, il cibo non smette di esprimere “lo stato psicologico
dell’individuo” (p. 289) o, come dice Calvino, il “senso d’una mancanza, d’un
vuoto divorante”.
FRANCO ZANGRILLI, Muse della tavola. Cibi e bevande in scrittori contemporanei, Pesaro, Metauro Edizioni, aprile 2024, pp. 299, € 24,00.