mercoledì 11 dicembre 2024

RECENSIONE


Biagio Coco

Per quanto possano apparire prosaici rimandi alla quotidianità, i cibi e le bevande, gli spazi della cucina e della tavola, le dinamiche dei pasti e le occasioni conviviali, con le loro relazioni, sono indiscutibilmente segni e ‘ingredienti’ di universi compositi di significati che è possibile rinvenire in numerosi testi letterari antichi e moderni, in manifestazioni artistiche figurative e filmiche di epoche diverse, come anche nell’opera di molti scrittori ormai classici della letteratura italiana del Novecento. Partendo da queste considerazioni Franco Zangrilli nel saggio Muse della tavola rivolge la sua puntuale indagine critica all’opera narrativa di Tozzi, Savinio, Pavese, Levi, Calvino e Tabucchi (destinando il settimo e ultimo capitolo agli scrittori di oggi e ai cibi della cucina postmoderna) e ci invita alle tavole di questi autori, definendone, come fa nel titolo di ciascun capitolo, le inconfondibili atmosfere.

Vere e proprie ‘muse’  capaci di raccontare e rappresentare la vita, la materia cibaria e le bevande sono per questi scrittori contrassegno identitario utile a descrivere l’ambientazione sociale e l’evoluzione storica delle vicende narrate; forniscono l’occasione per presentare le situazioni biografiche, gli aspetti caratteriali e gli stili di vita dei personaggi, evidenziandone tanto le aspirazioni quanto le inquietudini; diventano lo strumento attraverso cui questi autori rendono manifesta la propria visione del mondo e alimentano la propria ispirazione a parlare di altri argomenti su ben più alti “piani d’universalità” (p.15); ma riescono anche, in ultima istanza, a farsi simbolo del processo creativo, quando non anche di quella ‘fame per la vita’ e di quella ‘sete di sapere’ che alimenta e sostanzia la scrittura.

In questa serie di ideali inviti gastronomici d’autore, se Tozzi ricorre ai termini culinari per presentare il carattere contradditorio dei suoi personaggi, se narra del loro rapporto infelice con il cibo e carica il mondo della tavola dei sapori dell’amarezza e della drammaticità, è per servirci una vivanda ossimorica. Nella trattoria in cui è ambientato il romanzo Con gli occhi chiusi Domenico Rosi con il suo carattere ambiguo e irascibile “rende la trattoria uno spazio dell’aggressione e della violenza” (p.23); al contrario di ciò che dovrebbe essere, essa viene presentata come un luogo in cui si muovono cuochi e avventori trascurati e primitivi, in cui prevalgono gli scarti dalla dimensione ordinaria del comportamento e dei sentimenti; un luogo da cui Pietro, figlio di Domenico, evaderà dopo aver attraversato la sua ‘famelica’ passione per Ghisola. In maniera ancora più evidente nel romanzo Tre croci la tavola si fa specchio rovesciato dell’ignavia e degli egoismi dei tre fratelli Gambi che si indebitano “per sostenere le spese eccessive dei piaceri-vizi-peccati della gola” (p.35) e dietro la noncurante e ‘allegra’ consumazione dei loro pasti, mascherano il mantenimento di uno status sociale ormai compromesso e vivono abulici nella trappola dell’autodistruzione.  L’identificazione ossimorica’ tra la materia del cibo e il destino del personaggio è presente anche in molti racconti dello scrittore senese, dove il cibo e il vino non riescono a sfamare sensi di colpa e solitudini e si fanno metafora di una tragica mancanza di affetti.

La tavola di Savinio è un mosaico di incomunicabilità. È disunita e i commensali che la popolano si servono con indifferente distacco, rimuginando sui propri pensieri e appetiti, “assenti o assorti nelle proprie chimere” (p.70). Come nel romanzo La casa ispirata, dove, tra le presenze ‘mangianti’ di un’insolita abitazione parigina, la successione dei pranzi e delle cene assume i contorni di uno scenario surreale volto ad esprimere le anormalità dei convitati che la popolano, dando vita, per usare le parole dello scrittore, ad un “convito di necrofagi” (p.70). Sgradevole, putrido, marcio è anche il cibo consumato: una raffigurazione con toni orrendi, gotici conditi di ironia amara in cui “la degenerazione dell’universo gastronomico allegorizza il degrado attuale della società, della cultura, della conoscenza” (p.71). Il tema della tavola, nella produzione successiva di Savinio si fa “ossessivo” (p.86): nei racconti della raccolta Il signor Dido, ultima maschera dello scrittore, veicola più complessi ed eterogenei messaggi della condizione esistenziale dell’uomo e del processo meta-artistico della scrittura. Così, la tavola, domestico campo di battaglia, si farà metafora di tutte le guerre (Genitori e figli); un pranzo troppo abbondante non permetterà che vengano affrontati argomenti più elevati, lasciando Dido in preda all’amara constatazione di non essere stato in grado di “cucinare il piatto della scrittura” (p.94); e la minor quantità di cibo che l’uomo è costretto a mangiare per ragioni di salute (Piatto piccolo) ci confermerà, anch’essa, la “profonda decadenza dell’io” (p.87).

I numerosi riferimenti al cibo presenti nell’opera di Pavese, a cui è dedicato il capitolo successivo, sono solo in apparenza realistici: veicolano un groviglio di messaggi propri della poetica dello scrittore che li rende un alimento mitico-fantastico. Al centro dell’analisi di Zangrilli campeggia il confronto tra Paesi tuoi e La luna e i falò. Nel primo romanzo, in una “realtà campagnola […] tagliata fuori dalla civiltà” (p.100) per Berto e Talino il cibo si fa epifania di messaggi archetipici e mitici. Dove la terra mangia come e più degli uomini, dove essa li nutre materna con le sue colline-mammelle e i riti della vendemmia e della campagna sono vivi delle perenni mitologie agresti, è inevitabile che Gisella, amata da Berto, sia mela, ciliegia, sia “fatta di frutta” (p.104); come è inevitabile che il suo brutale omicidio, frutto di un’incestuosa gelosia, non interrompa il pasto successivo e non intacchi la natura ferina dell’essere umano. Nel romanzo La luna e i falò, invece, seguendo il ritorno di Anguilla al paese natale, la natura simbolica del cibo viene ripresa e diversamente modulata ora in chiave mitico-fiabesca ora in chiave fantastica. Sul binario di una doppia visione tra la favola della giovinezza e la rielaborazione fantastica del presente, il protagonista rivede i luoghi della sua infanzia, i sapori del passato, ritrova l’amico Nuto che ha saputo custodire la memoria dei luoghi e il sapore dei valori di saggezza e altruismo anche nel presente. E in ciascuna delle esperienze vissute, i cibi reali e metaforici riassaporati da Anguilla non smettono di essere referenti della portata fantastica della vita.

Nell’analisi di Se questo è un uomo, contenuta nel capitolo Levi: nutrimento di tempi orrifici l’assenza di cibo, la fame e la sete sperimentate nella realtà atroce e del lager hanno una rilevanza notevolissima, a partire dal pane che non solo è allusivo di tutti i cibi che non si possono mangiare, ma diventa anche “un deuteragonista o una sorta d’ombra fantasmatica o un incubo orroroso” (p.141). Zangrilli evidenzia con raffinata puntualità come la narrazione di Levi denunci, attraverso l’assenza di cibo, nutrimento fisico e spirituale, la perdita della normalità e della dignità dell’essere umano; sottolinea poi come la sua scrittura sfrutti i mezzi umoristici della “sovversione, della giustapposizione, dell’antinomia” (p.154) proprio per descrivere la condizione in cui l’uomo sembra ridursi a coincidere con la sua stessa fame. Ci presenta così gli uomini che recuperano il cibo nella dimensione onirica, quelli che lo usano come ‘moneta’ di scambio per sopravvivere trasformandosi in tragici antieroi:  nel campo di sterminio, vero e proprio ‘regno’ della fame, il cibo consumato in piedi enfatizza la degradazione dell’essere umano ad una dimensione bestiale. Nel testo successivo, La tregua, la fame, il freddo e la guerra si confermano sinonimi delle miserie dell’uomo e del dolore dell’esistenza, ma durante questo viaggio di ritorno le occasioni conviviali sono anche l’occasione per ritrovare e ristabilire rapporti umani, riassaporare la libertà e una normalità in cui “mangiare” coincide con il “raccontare” (p.169).

Alla tavola di Calvino si possono trovare vivande di stagioni diverse quante sono le età della vita, le fasi compositive attraversate dall’autore e i periodi vissuti dalla società italiana dal secondo dopoguerra in poi. Operando una sapiente quanto ironia riscrittura di topoi letterari, Calvino trasforma i riferimenti al cibo in articolati paradigmi di istanze conoscitive e di motivi sociali, in modelli della “sete cognitiva e creativa” dei suoi personaggi (p. 207), in immagini segniche con cui interpretare la società contemporanea. Si fornisce qualche ‘assaggio’ delle numerose opere prese in esame da Zangrilli. Il linguaggio gastronomico nel romanzo Il sentiero dei nidi di ragno serve diffusamente a narrare le vicende del giovanissimo Pin, divenendo cruda metafora della sua conoscenza della vita e del mondo degli adulti; è utilizzato per descrivere la tragedia della guerra che distrugge i raccolti e affama gli uomini, ma testimonia anche il bisogno di protezione e affetto paterno che il ragazzo troverà nel partigiano Cugino e nella sua mano “fatta di pane” (p.180). Nel Barone rampante troviamo un altro adolescente (Cosimo Piovasco) e un’altra epoca (il 1776). Dopo aver rifiutato le detestate pietanze a base di lumache ed essere stato cacciato da tavola con asprezza dal padre, Cosimo si rifugia a vivere sugli alberi: “un intricato rifiuto simbolico” (p.199) che unisce il gusto per la contestazione al desiderio del giovane di crearsi una propria identità. In questa libertà alimentata dai ‘sapori’ fantastici di Cosimo, tra una capanna sugli alberi che si fa “reggia” e i frutteti che sembrano animarsi, prendono vita le sue nuove istanze sociali, il suo gusto per la libertà e per la giustizia, e la sua sete di conoscenza non può che concludersi oltre, sopra il mare. Così con le raccolte di racconti che hanno come protagonisti Marcovaldo e Palomar, dove tra passato e presente, i cibi come gli stessi personaggi diventano emblemi del consumismo, della società italiana del dopoguerra e della condizione postmoderna, tra funghi velenosi e fiumi blu, ammalianti supermarket e musei di formaggi, emblemi di una conoscenza sempre più astorica, effimera, inconsistente.

L’ultimo invito d’autore è quello di Tabucchi. Frutto di due tradizioni culinarie diverse, quella spagnola e quella portoghese, perfettamente note allo scrittore, la sua tavola di intellettuali e fantasmi non solo rivisita e recupera le pietanze tradizionali del passato ponendole a confronto con le abitudini alimentari contemporanee, ma impasta attraverso il cibo ben più stratificate dialettiche. Accade in Requiem dove il protagonista in giro per le vie di Lisbona, nell’attesa di incontrare a mezzanotte il fantasma del “grande poeta” immagina di vedere persone ormai defunte, di parlare con loro, di salutarle in un ideale commiato, in una successione di fantasmatici incontri costellata di occasioni conviviali e conoscitive attraverso i quali si ha l’impressione che Tabucchi “stia costruendo un variopinto banchetto letterario” (p. 237). Così, in un tempo in cui le ricette antiche sono soggette a inevitabili variazioni, mentre i piatti della tradizione perdono la memoria del passato per venire incontro ai gusti contemporanei, ora che ogni piatto è l’amalgama di elementi oggettivi e della creatività individuale, l’incontro con il Poeta non può non avere al centro “l’intricata relazione tra il modernismo e il postmodernismo (pag. 239) e svolgersi di fronte ad una tavola con il suo menu che è una ‘carta poetica’, dell’inquietudine e dell’incertezza. In Sostiene Pereira, in una Lisbona sotto il regime dittatoriale di Salazar, mentre ‘tutta l’Europa puzza di morte’, il vecchio giornalista Pereira, preda dell’obesità, soffocato e rallentato dai ricordi del passato, si illude di curare la solitudine e le ferite dell’anima per la perdita della moglie attraverso un rapporto autodistruttivo con il cibo. Nel suo bisogno di socialità, la tavola si fa inevitabilmente segnica: del suo disagio esistenziale (che si manifesta nella consumazione sempre delle stesse pietanze per lui non salutari, quali limonata e omelette alle erbe aromatiche); del suo immobilismo (visibile nella frequentazione degli stessi luoghi come la sua stanza-redazione ammorbata dal puzzo di frittura dei piatti cucinatigli dalla portinaia o il Cafè Orchiedea che abitualmente frequenta); della sua angoscia (nella lotta con il cibo e nel rifiutarsi di seguire i consigli dei medici). La progressiva conoscenza di un giovane giornalista, Monteiro Rossi, suo alter ego “agile e magro”, come anche la cena in cui Pereira, che dà ospitalità e rifugio al giovane uomo, deciderà di assumere la “veste di cuoco” (p.255), ritrovando la capacità umana e meta-artistica di immaginare e creare nuovi piatti, non renderanno vana la tragica uccisione del giovane giornalista ad opera di funzionari della polizia segreta. Pereira sarà capace di “denunciare i mali del suo tempo” (p. 256) e di fuggire in un paese democratico.

Il capitolo conclusivo del saggio di Zangrilli non è dedicato ad un autore, ma ad un libro singolare, Dai fiori del male ai fiori di zucca, un testo collettivo ed “enciclopedico degli aspetti del cibo nella società postmoderna” (p.268) costituito da centotrentotto componimenti realizzati per lo più da autori e autrici campani assieme ad altre pagine di scrittori di epoche diverse e raggruppati in sezioni che riproducono la successione delle vivande di un pranzo. Zangrilli presenta i tratti comuni a questi testi, in molti casi brevi e aventi la forma di una nota o di un paragrafo: la prosa chiara e incisiva, l’utilizzo del paradosso, della caricatura, “dell’ironia che mentre intrattiene demitizza” (p. 269), l’ispirazione della riscrittura di moduli e temi della tradizione letteraria, la memoria. Partendo dalla dimensione realistica di cibi e bevande, questi testi costruiscono storie dai risvolti più ampi e di taglio universale, volti a scavare nella dimensione tragica della vita, indagando ora i motivi dell’amore e della separazione degli amanti (“I felafel”, “Mais”), ora quelli del rapporto tra cibo e sesso (“Dopo cena”, “Lasagna classica napoletana”), la tematica del tradimento con i suoi toni umoristici (“Il purpo ‘mbuttunato”), la favola dell’orrore e il tema dell’antropofagia (“Il pane rituale”). Del resto, anche nella contemporaneità, mentre gli individui sperimentano la “vertiginosa trasformazione della vita dei tempi attuali” (p. 287), sempre più privi di coscienza storica, sempre più incoerenti, il cibo non smette di esprimere “lo stato psicologico dell’individuo” (p. 289) o, come dice Calvino, il “senso d’una mancanza, d’un vuoto divorante”.

FRANCO ZANGRILLI, Muse della tavola. Cibi e bevande in scrittori contemporanei, Pesaro, Metauro Edizioni, aprile 2024, pp. 299, € 24,00.

 


lunedì 25 novembre 2024

RECENSIONE


Aldo Meccariello

Da decenni saggi e studi di letteratura italiana non sempre si spingono a valorizzare la linea geografica delle patrie lettere peraltro prospettata nel celebre studio, ormai un classico, di Carlo Dionisotti, Geografia e storia della letteratura italiana del 1967, e ripresa da Alberto Asor Rosa nella poderosa opera einaudiana, Letteratura italiana, a partire dagli anni Ottanta. Provare a ridisegnare una geografia della letteratura italiana, che si collochi oltre la matrice storicistica-desanctisiana, può restituire nuova linfa alla nostra identità letteraria e alla sua storia anche perché la geografia è, in un certo senso, una forma della storia cioè un insieme di luoghi mentali, antropologici, culturali e non solo fisici.
Allora, ben venga questo prezioso volume di Andrea Giampietro, Studi di letteratura abruzzese (Edizioni Menabò, 2024), che è un tributo rigoroso e appassionato a scrittori, poeti e critici dell’Abruzzo di fine ’800 e soprattutto del ’900 (D’Annunzio, De Lollis, De Titta, Clemente, Giannangeli, Silone, Rosato, Lelj, Giuliante, Dommarco, Savastano, Marciani etc.), con un’appendice interessante su Pasolini e l’Abruzzo. Già il titolo “Studi” e non “storia”, o “profili” di letteratura abruzzese, imprime alla ricerca di Giampietro un carattere sperimentale, aperto, non innervato in canoni consueti o in stereotipi rigidi. La questione è capire se esiste una letteratura abruzzese o meglio se l’abruzzesità intesa come identità regionale autonoma è capace di armonizzarsi attraverso l’osmosi feconda tra generi, registri espressivi e stili in un’ottica di storia non unitaria della letteratura nazionale.
Il volume si apre su Gabriele D’Annunzio che ambienta ad Anversa degli Abruzzi, presso le Gole del Sagittario, oggi riserva naturale, la sua Fiaccola sotto il moggio, tragedia in versi, composta dal Vate agli inizi del ’900 e inserita in quel filone di «smembramento familiare iniziato nel Trionfo della morte (1891) e poi sviluppato nelle Vergini delle rocce (1896)» (p. 9). Certo, questo inserimento in apertura del volume conferma a pieno titolo, a dire dell’Autore, la vitalità rinnovata del motivo abruzzese nell’opera dannunziana, visto l’inverato amore del poeta per i suoi luoghi natii che sono però sempre trasfigurati, mitici e non realistici. A dire il vero, la collocazione di D’Annunzio nel solco di una linea regionalistica rimane sempre problematica ma non è forse il tempo di sottrarlo alla sua specificità abruzzese?
Andrea Giampietro offre al lettore una galleria variegata e articolata di profili di poeti e scrittori abruzzesi che si sono misurati con la potenza espressiva del dialetto, lingua viva. Fra tutti spicca la figura di Vittorio Clemente, tra i maggiori poeti dialettali abruzzesi, giunto alla ribalta nazionale grazie alla raccolta Acqua de magge (1952) con la prefazione di Pier Paolo Pasolini che lo include nella raccolta della Poesia dialettale del Novecento (1952) e poi oggetto di saggi e studi da parte di autorevoli critici e poeti come Giannangeli, Fortini, Caproni, Petrocchi, Spagnoletti. Trasferitosi a Roma agli inizi degli anni ’40, si dedica agli studi sulla poesia romanesca (Belli, Trilussa, Pascarella, Jandolo, Lombardi, Terenzi) e nel 1970 esce poi la sua opera omnia, esempio mirabile di poesia lirica dialettale.
Giampietro nel suo accurato lavoro registra un risveglio della cultura abruzzese sul fronte degli studi storici, linguistici e letterari, ben distante dalla mera cronaca regionalistica o localistica e si sforza con risultati eccellenti di restituire a ciascun profilo uno spessore nazionale ed europeo. A riprova si lascia guidare lungo i vari saggi dal magistero del critico letterario Ottaviano Giannangeli (1923-2017), a cui dedica diversi capitoli, e in esergo il volume. Poliedrica figura di intellettuale, Giannangeli fu professore universitario, poeta, narratore, saggista e traduttore; s’interessò principalmente a D’Annunzio, Montale, Pascoli e Camerana, nonché ai grandi autori dialettali come Clemente, Postiglione, De Titta e Luciani; studiò il dialetto come lingua del popolo «perché nessuno come lui è riuscito, nel secondo Novecento abruzzese, a rendere cantabile, in una lingua comprensibile al contadino, l’ampio raggio del suo genio poetico» (p. 96). Inoltre, fu fondatore e co-direttore, insieme a Giuseppe Rosato e Giammario Sgattoni, della rivista “Dimensioni” (1957-74) che mirava a riunire le più fervide forze intellettuali della regione al fine di avviare un confronto dialettico con le migliori realtà del panorama culturale nazionale e internazionale.
La sua attività di critico si è realizzata in numerose pubblicazioni antologiche e saggistiche, tra le quali Canti della terra d’Abruzzo e Molise (1958), Poeti dialettali peligni (1959), Umberto Postiglione (1960), Qualcosa del Novecento (1969), Operatori letterari abruzzesi (1969), Pascoli e lo spazio (1975), La bruna armonia di Camerana (1978), Metrica e significato in D’Annunzio e Montale (1988), Parole d’Abruzzo. Otto poeti dialettali della regione (2001), Scrittura e radici. Saggi 1969-2000 (2002). La sua poesia si alza chiara e sicura a celebrare anche l’appartenenza a un territorio, alla sua storia, alla sua comunità. Il lettore è invitato ad approfondire questa tematica in un capitolo denso e teorico, Ad accoppiar parole. “Dialettale” e “popolare” nella poesia di Giannangeli, da cui si evincono le linee guida dell’intero impianto del lavoro di Giampietro che sottolinea come la sua poesia smentisca la presunta incompatibilità tra lingua letteraria e lingua parlata, come il dialettale e il popolare si fondino nel medesimo significato: «la scrittura in dialetto di Giannangeli non è la semplice risoluzione di un’anima nutrita da motti e canti popolari ma la consapevolezza che certe cose, certe inclinazioni dell’animo, certe condizioni del sentire universale, non possano esprimersi che nella lingua nativa» (p. 101). L’abruzzesità non può non rivivere, non può non rigenerarsi di continuo nella lingua materna. Ecco il filo conduttore di questi Studi di letteratura abruzzese che confermano come l’esperienza della poesia dialettale rappresenti una vera e propria seconda tradizione altrettanto alta, altrettanto colta della poesia in lingua italiana.
Anche il capitolo dedicato a Giuseppe Rosato, il poeta di Lanciano, oggi novantaduenne, scava nelle pieghe della sua opera poetica in lingua e in dialetto e riporta alcuni assaggi di esegesi testuale delle sue raccolte poetiche. In libri come La cajola d’ore, Ecche lu fredde, L’ùtema lune, E mò stém’ accuscì, La ’ddòre de la neve e Jurne e jurne, Rosato si affida al dialetto e alle sue componenti fonetiche e morfologiche, rievocando i lati crepuscolari dell’esistenza: «Io qui nel buio, sono tutto, tutto» (p. 133).
Un inserimento sorprendente è quello di Umberto Postiglione (1893-1924), rivoluzionario e anarchico di Raiano che partecipò alle lotte politiche e sindacali negli Stati Uniti e in America del Sud per fare poi ritorno in Abruzzo ove scoprì la sua vocazione di poeta e maestro elementare (a tal proposito è rilevante l’intervento, intitolato L’autoeducazione del maestro, ch’egli tenne al Congresso Magistrale dell’Aquila del 17 Novembre 1923); sarebbe morto a soli trent’anni. A riportare l’attenzione su Postiglione poeta e pedagogo è instancabilmente Giannangeli che accede al suo archivio personale e ne cura un’antologia nel 1960.
Ma veniamo ai nodi più problematici della discussione di natura letteraria e ideologica intorno alla specificità abruzzese che Giampietro illustrata nel capitolo dedicato alla corrispondenza tra Giannangeli e Silone, Fontamara non è in Abruzzo. Giannangeli nel 1957, anno di fondazione della già richiamata rivista, “Dimensioni”, redige una sorta di manifesto invitando intellettuali, studiosi, politici a dare una mano per il rinnovamento della cultura abruzzese in tutte le sue forme: «Non c’è problema che vi impegni a fondo, e che vi ponga davanti alla vostra responsabilità di Abruzzesi, più di quello della cultura. […] Non si dà risveglio, neppure nella sfera economica, industriale e commerciale, che non si configuri nella storia della civiltà, ossia nell’evoluzione integrale dello spirito» (p. 81). All’appello risponde Ignazio Silone che rifiuta non solo l’invito a collaborare ma contesta le linee teoriche della rivista (nata col titolo di “Rivista abruzzese di incontro e di allineamento culturale”, poi mutato in “Rivista abruzzese di cultura e d’arte”) e stigmatizza l’espressione “allineamento culturale” come una frase da “maestro di ginnastica”. L’autore di Fontamara non crede nella specificità della cultura abruzzese: «Non sarebbe più realistico discorrere di partecipazione degli abruzzesi alla cultura occidentale o cristiana o mediterranea, secondo quello che si preferisce?» (pp. 83-84). Giannangeli con determinazione e robustezza intellettuale ribadisce il suo intento di aprire l’Abruzzo a nuove dimensioni, a nuovi ideali di cultura e di civiltà, fiducioso che lo scrittore marsicano ci ripensi. Da questi brevi stralci del carteggio viene fuori l’idea di cosa significhi “letteratura abruzzese”, di cosa significhi guardare all’Abruzzo come specchio emblematico di civiltà e di orgoglio, come potente metafora del mondo per usare un’espressione di Leonardo Sciascia che si riferiva alla sua Sicilia.
Il volume si chiude su Pasolini e l’Abruzzo, dedicato a un rapporto molto stretto iniziato grazie a Vittorio Clemente che aveva aiutato il poeta friulano a trovare un posto di insegnante in una scuola privata di Ciampino agli inizi del 1950 e poi proseguito negli anni a venire con periodici dibattiti a Teramo, fino alla tragica morte di Pasolini nel 1975 all’idroscalo di Ostia.
Questo libro di Andrea Giampietro dovrebbe circolare molto nelle scuole e non solo tra addetti ai lavori o tra lettori specializzati perché offre tanti spunti e stimoli per approfondire la letteratura abruzzese anche nel contesto della cultura nazionale ed europea e ancora di più è una traccia significativa per mettere a punto una storia civile degli intellettuali della terra d’Abruzzo.


Andrea Giampietro, Studi di letteratura abruzzese, Ortona, Edizioni Menabò, 2024, pp. 206, € 15,00.



martedì 10 settembre 2024

RECENSIONE

 LA RINASCITA DI UNA DONNA

 Rosa Elisa Giangoia


Con il suo nuovo romanzo Sadia. Storia di una donna Donatella Mascia arricchisce la sua ormai vasta produzione narrativa aggiungendo un genere letterario diverso, quello dell’autobiografia di un personaggio, una donna, appunto, di nome Sadia, che racconta le sue vicissitudini personali, con una narrazione che riporta al romanzo di formazione (Bildungsroman), raramente con protagonista una donna. Ma la vicenda narrata da Donatella Mascia ha un forte rilievo socio-culturale, in quanto si incentra sulla concezione del matrimonio e sulla condizione della donna in una società, come quella del Bangladesh, paese di religione musulmana sunnita, in cui le donne, prive di autonoma libertà decisionale, vivono in una condizione di oppressione da parte della componente maschile della famiglia.

    Questo è appunto la situazione di Sadia che, appena diventata donna, viene obbligata, nonostante il suo desiderio di continuare a studiare, a sposare un uomo mai visto prima, che si dice abbia fatto fortuna a Roma. Sadia, senza alcun sostegno nella sua famiglia, anzi fortemente indotta dalla madre e dalla nonna a obbedire a questa scelta fatta da altri per lei, acconsente e si trasferisce a Roma, dove deve purtroppo rendersi conto che la condizione sociale del marito non è economicamente florida, come le avevano fatto credere, e dove inizia per lei un calvario di convivenze forzate in appartamenti sovraffollati per la presenza di altri connazionali che le impongono pesanti incombenze domestiche, a cui si aggiungono i turni massacranti nelle attività di pulizie condominiali del marito che diventa il suo più violento oppressore nel lavoro e nei rapporti personali, contrassegnati da stupri e maltrattamenti, anche dopo la nascita di due figli, fino alle minacce, e poi ai tentativi, di ucciderla. Per il marito è tutto nella norma del suo essere padrone della moglie, in base alla concezione tradizionale dei rapporti matrimoniali nel suo paese.
    Dopo il susseguirsi di tante vicissitudini, Sadia, che non ha avuto neppure comprensione e protezione da parte della sua famiglia d’origine durante un breve rientro in Bangladesh, trova la forza di denunciare il marito e di affidarsi alla tutela che la legge può concederle in Italia: di qui inizia per lei la via della fiducia nella giustizia, ma anche in se stessa e in altre persone che l’aiutano a costruirsi una vita autonoma, insieme ai suoi figli, lontano dai soprusi e dalle prevaricazioni del marito, ormai condannato e incarcerato.
    Tutte queste vicende vengono narrate da Donatella Mascia con un’organizzazione della fabula secondo un intreccio accattivante e coinvolgente per il lettore, ma anche con abili approfondimenti psicologici che costruiscono con verisimiglianza la personalità di Sadia, i suoi turbamenti e le relazioni con la famiglia, il marito e gli altri personaggi, a cui si aggiunge una convincente ricostruzione socio-economica del Bangladesh che dimostra un’ottima documentazione su quel paese, lontano da noi non solo geograficamente ma soprattutto per usi, costumi e tradizioni.
    L’intento principale dell’autrice è senz’altro quello di far emergere con questa emblematica vicenda la difficilissima situazione in cui vivono le donne nei paesi dove domina ancora la forte tradizione dell’islamismo più radicale, condizione che, purtroppo, ha avuto ricadute anche qui in Italia con dolorosi episodi di cronaca che hanno creato sbigottimento e sconforto nell’opinione pubblica. La questione si incentra sulla mancanza di libertà di autodeterminazione per le donne, bloccate nei loro progetti di vita e obbligate a matrimoni imposti dalla famiglia. Tutto questo avviene in situazioni di forte e acritica adesione alla tradizione sociale e religiosa, in forme e modi che a noi, eredi dell’evoluzione della mentalità derivante dal Rinascimento e dall’Illuminismo, appaiono incomprensibili e inaccettabili. Dobbiamo, però, pensare che per lungo tempo, anche nella nostra cultura, il matrimonio è stato vissuto come un contratto, sulla base di convenienze familiari, più che come un legame affettivo e sentimentale tra due persone. A mettere in discussione questa visione del matrimonio hanno fortemente contribuito diverse opere letterarie, come Giulia o La Nuova Eloisa di Rousseau, I dolori del Giovane Werther di Goethe e Le ultime lettere di Jacopo Ortis del Foscolo, spostando l’attenzione sulla sfera soggettiva e sulla personale consonanza psicologica determinante per l’amore come fondamento del matrimonio. Possiamo quindi sperare che la letteratura, con buoni romanzi, come questo, capaci di prospettare problemi, ma anche di indicare vie di risoluzione, possa ancora contribuire ai cambiamenti di mentalità, anche se oggi ci sono molti altri soggetti che entrano in gioco.

Donatella MASCIA, Sadia storia di una donna, Genova, Stefano Termanini Editore, 2024, pp. 271, € 18,00.



giovedì 25 luglio 2024

RECENSIONE


Rosa Elisa Giangoia


Marinella Gagliardi Santi ha tratto ispirazione dalla sua tesi di laura in Epigrafia Greca sulla magia, in particolare sulle Defixiones, cioè sulle tavolette greche e latine di “maledizione”, usate per augurare la cattiva sorte ai nemici o propiziarsi le divinità per situazioni personali, in base alla diffusa propensione alle superstizioni e ai riti magici degli antichi greci e romani. Da queste ricerche di base, implementate con successivi approfondimenti e aggiornamenti, grazie anche alla consultazione di più recenti pubblicazioni scientifiche, in una sapiente combinazione di invenzione, secondo il criterio della verisomiglianza storica, e di notizie acquisite dalle testimonianze letterarie, storiche e archeologiche, sono nati tre piacevoli e interessanti romanzi che portano avanti le vicende di un gruppo di personaggi nel mondo romano del I secolo d.C.
Il primo romanzo, DEFIXIONES. Il mistero delle tavolette magiche (2012) ci porta in una Pompei ancora ricca e florida, in cui si svolgono le vicende di un gruppo di abitanti, in particolare del rinomato mago Pitone, autore appunto di defixiones, ma che, a causa della sua distrazione, combina molti guai, creando scompiglio nella vita di Publio, un agiato armatore di navi, di un anziano indovino e anche degli aurighi nelle loro gare di cocchi, in un susseguirsi di risvolti misteriosi, su cui aleggia la pungente ironia dell’autrice.
Il secondo, DEFIXIONES. Dimenticare Pompei (2016), vede i protagonisti del primo, Publio e Pitone, costretti ad abbandonare la città campana, sconvolta e distrutta a seguito della catastrofica eruzione del Vesuvio, per cercare riparo a Ostia, cittadina caratterizzata da un’intensa attività commerciale, grazie al suo porto. Le vicende si svolgono tra qui e Roma, per le strade, ma anche sul Tevere, oltre che con viaggi in Gallia, per dare rilievo al nuovo acquedotto costruito dai Romani alle Aquae Sextia, e nell’Italia Meridionale. Tutto questo mentre un piano delittuoso incombe sui due protagonisti e sulle loro famiglie, in un avvincente susseguirsi di intrighi e colpi di scena. Parte importante ha anche in questo romanzo la magia a cui l’autrice continua a guardare con quella nota di ironia che sottolinea la distanza del tempo.
Ed ecco proseguire le vicende di questi stessi personaggi nel terzo romanzo, DEFIXIONES. Roma brucia ancora (2023), in cui protagonista è ancora l’armatore Publio, a cui ora viene affidata una missione segreta in Oriente d parte dell’imperatore Tito. Con lui s’imbarcano anche il suo secondo figlio Lucio e, naturalmente, il mago Pitone, che verrà coinvolto in mirabolanti avventure, mentre a casa rimane la moglie Sibilla con il figlio più piccolo, Gaio. Così le vicende si svolgono tra Roma e i mari del Mediterraneo Orientale in un sapiente gioco narrativo fatto di entralecement, degno dei migliori esempi dei testi del Ciclo arturiano e dei poemi cavallereschi, in un continuo spostamento di luoghi tra Roma e i porti del Mediterraneo, a cui si aggiunge Mediolanum dove si sta affermando professionalmente Licinio, il figlio maggiore di Publio, come collaboratore di Ceciliano, magistrato responsabile dell’approvvigionamento idrico in tutto l’impero.
L’epicentro è comunque sempre Roma, dove si tessono subdoli intrighi e complesse trame di palazzo per la contrapposizione tra Tito e suo fratello Domiziano, in un susseguirsi di rapimenti, omicidi e indagini. Intanto improvviso e inaspettato si verifica il pauroso incendio dell’80 d.C. che costringerà i nostri protagonisti a riparare nuovamente a Ostia, dove verranno raggiunti anche dai due famosi poeti satirici, Marziale e Giovenale, e dove in fine si ricomporranno i fili di tutte le vicende, riportando i personaggi a una condizione di stasi da cui sembrano pronti per ispirare a Marinella Gagliardi Santi nuove avventure.
Viene fuori un romanzo appassionante che fornisce ai lettori un quadro storicamente accurato della ricostruzione della vita romana del I secolo d.C., per la puntuale documentazione sui testi degli autori più attendibili, ma reso attraente dalla fantasia dell’autrice che popola questo mondo con tanti personaggi verosimili, avventurieri e sicari, soldati e marinai, donne orientali e matrone romane, streghe e sedicenti imperatori inaspettatamente sfuggiti alla morte.
E' un romanzo senz’altro coinvolgente e di piacevole lettura, condotto con immediatezza, vivacità e sorridente ironia sulle debolezze di questi antichi personaggi, che ci riescono sempre simpatici e che sono tutti ben tratteggiati a tutto tondo nelle loro individuali caratteristiche psicologiche.
A rendere piacevole la lettura è anche la scrittura, scorrevole, controllata e sempre appropriata, capace di farci sentire presenti in quel mondo, vicini ai protagonisti di tante vicissitudini.

Marinella GAGLIARDI SANTI, DEFIXIONES. Il mistero delle tavolette magiche, Roma, Armando Curcio Editore, 2012, pp. 318, € 10,00.
Marinella GAGLIARDI SANTI, DEFIXIONES. Dimenticare Pompei, Roma, Armando Curcio Editore, 2016, pp. 446, € 15,00.
Marinella GAGLIARDI SANTI, DEFIXIONES, Roma brucia ancora, Roma, Armando Curcio Editore, 2023, pp. 335, € 18,00.





domenica 16 giugno 2024

RECENSIONE


SEI DONNE NELLE TEMPERIE DEL RISORGIMENTO

 Rosa Elisa Giangoia



Il progetto storico-letterario “Mnemosine – Donne nell’ombra”, che si propone “di dar voce a personaggi femminili che hanno partecipato alla storia dei fatti e delle idee con contributi di dedizione, amore e coraggio”, si arricchisce del recente volume Dai salotti alle barricate. Donne protagoniste del Risorgimento di Simonetta Ronco che getta una luce nuova su figure femminili spesso poco conosciute dal grande pubblico, ma che nella loro esistenza sono state protagoniste della vita sociale, culturale e politica di Milano in epoca risorgimentale, alcune anche con una significativa presenza a Genova.
Simonetta Ronco, che da molti anni dedica la sua attività di storica e di biografa alle vicende del nostro Risorgimento, convinta che sia stato il momento più significativo per l’emergere del ruolo della donna sul palcoscenico della storia, ha voluto, con questo suo nuovo lavoro, tratteggiare l’esperienza umana di una serie di donne delle quali si è impegnata a metterne in luce la personalità e l’attività per dar loro quella visibilità e quel riconoscimento di cui sono oggettivamente meritevoli.
Per raggiungere i suoi obiettivi l’autrice ha compiuto attente ricerche storiche e biografiche su fonti documentarie e archivistiche dell’epoca, di cui ha tratteggiato in modo esaustivo e avvincente anche le vicende storiche generali.
Ma Simonetta Ronco ha arricchito l’indagine storica con la sua personale abilità di narratrice, dimostrata in tanti romanzi, e, sulla linea della lezione manzoniana del rapporto tra storia e invenzione e tra vero e verosimile, dà anche spazio ai sentimenti e ai pensieri delle varie protagoniste, grazie alla sua fantasia, sostenuta dalla sua esperienza storica e sostanziata dalla sua consapevolezza psicologica.
Diverse per molti aspetti sono le donne che vengono tratteggiate e differenti sono stati i loro ruoli e i loro impegni: alcune sono rimaste ai margini delle ideologie politiche, patriottiche e indipendentiste dell’‘800, altre si sono impegnate con coraggio e determinazione, talvolta anche con sacrifici personali, per affermare e realizzare i loro ideali, cioè l’indipendenza dallo straniero e l’unità dell’Italia. Sovente accanto o alle loro spalle, c’era un uomo con cui condividevano gli intenti con dedizione e passione, talvolta anche con stretti legami sentimentali.
La prima a comparire in scena è Antonietta Fagnani Arese (1778-1847), ben nota dalle abituali letture scolastiche, nei cui confronti si è consolidata, ed anzi ampliata, quella fama che Ugo Foscolo le aveva preconizzato tra “le insubri nipoti” dedicandole l’ode All’amica risanata. Simonetta Ronco la svincola da questa ristrettezza di “divina” figura letteraria e ne tratteggia un ritratto umano, autentico e vivace, quello di una donna molto libera nei costumi e nei comportamenti, in quella Milano, dove, pur ancora attivo il cicisbeismo di pariniana memoria, le donne godevano di totale autonomia sentimentale. Il suo legame con il Foscolo è forte e appassionato, come documentano le lettere del poeta che ci sono rimaste (perse quelle di Antonietta), ma breve, per volontà di lei, ma soprattutto essendo entrambi volubili nel cuore.
Segue la ricostruzione della vita di Bianca Milesi Mojon (1790-1849), esuberante e appassionata protagonista della vita politica milanese e molto interessata ai problemi sociali negli anni turbolenti delle vicende napoleoniche, trasferitasi poi a Genova, dove sposa il medico Benedetto Mojon e, diventata madre di tre figli, si occupa di problemi educativi dell’infanzia e di emancipazione femminile, per finire poi la sua vita a Parigi, dove, lei e il marito muoiono lo stesso giorno di colera.
Da Milano approda a Genova anche Bianca De Simoni Rebizzo (1800-1869), quando, nel 1825, sposa Lazzaro Rebizzo, già strettamente legato a Nina Giustiniani, di cui fu confidente e consolatore negli anni del suo infelice amore per Camillo Cavour. Nella città ligure Bianca intrecciò “un amore intenso e duraturo con Raffaele Rubattino”, ma fu soprattutto attiva come patriota, benefattrice ed educatrice. Legò il suo nome alla fondazione di un asilo infantile e del Collegio delle Peschiere, destinato all’educazione delle giovinette di buona famiglia. Quando morì, Aleardo Aleardi compose in suo onore un poema che offrì al marito.
Ecco poi comparire nelle pagine del libro Giuditta Bellerio Sidoli (1804-1871), attratta sin da giovane dalle società segrete finalizzate a ottenere l’indipendenza e l’unità d’Italia. Ma il nome di questa donna “intelligente, appassionata, impulsiva” che “dimostrava uno straordinario equilibrio di volontà ferrea e sensibilità” è legato a quello di Giuseppe Mazzini, per amore del quale, dovette sopportare momenti difficili fino ad essere privata dei figli. Ma, come attestano le lettere che i due si scambiarono, da quando si conobbero fino alla morte, il loro legame fu molto forte, alimentato dai comuni ideali politici, pur nelle movimentate vicende del loro destino.
Segue la biografia di Laura Solera Mantegazza (1813-1873), una donna dalla vita solo apparentemente semplice, in quanto senza avventure e drammatiche esperienze. In realtà fu persona di grandi entusiasmi e di forti passioni che, sullo scenario delle vicende risorgimentali, vissute con spirito patriottico di orientamento mazziniano, grazie al suo intenso impegno sociale, seppe dar vita a grandi opere, fondando il primo Ricovero per bambini lattanti in Italia e l’Associazione Generale di mutuo soccorso delle operaie e delle scuole professionali femminili.
La rassegna di queste figure femminili si conclude con Giulia Calami Modena (1816-1869) che lasciò la confortevole casa di famiglia e rinunciò ad un matrimonio di borghese convenienza per legarsi con l’attore Gustavo Modena di cui condivideva l’amore per la patria e per l’arte. La loro vita fu subito avventurosa e burrascosa con la fuga dall’Italia per riparare oltralpe, poi a Bruxelles e a Londra, dove Gustavo poté ritornare sulle scene teatrali declamando Dante. Ritornati in Italia, si lasciarono coinvolgere dalle vicende militari, in Veneto, a Milano e a Roma, nel fervore degli ideali mazziniani, Gustavo, come combattente e Giulia, rendendosi utile in tutti i modi possibili, ma soprattutto come infermiera e organizzatrice dei soccorsi e delle cure ai feriti.
Nell’insieme risulta questo un libro molto interessante dal punto di vista storico e di piacevole lettura, in quanto l’abilità dell’autrice di ricostruire e di narrare ci fa rivivere il nostro Risorgimento non solo nel tradizionale susseguirsi di eventi politici e militari, ma anche in una dimensione più umana e più vera, presentandoci le vicissitudini, le emozioni e i sentimenti di sei donne che nelle temperie di quei decenni hanno dovuto decidere della loro vita, schierarsi, prendere posizioni, sovente con difficoltà e sofferenze, dimostrando sempre determinazione, fierezza e coraggio.

Simonetta Ronco, Dai salotti alle barricate, Pietro Macchione Editore, Varese, 2024, pp. 131, € 15,00.

sabato 15 giugno 2024

RECENSIONE

 

 


Gabriele Braggion

La madre, nella narrativa di Antonio Franchini, si era affacciata una prima volta in Quando vi ucciderete, maestro? (1996), il libro sul combattimento e le arti marziali. E già allora, tra racconti di palestra e digressioni sull’eroismo, svolgeva il compito che è suo nel nuovo romanzo Il fuoco che ti porti dentro (Marsilio, 2024, pp. 222, Ɛ18): abbassare azzerare avvilire tutto ciò che, staccandosi dal piattume della realtà, può elevare verso l’arte il bello il poetico. Lo faceva allora a cominciare dal titolo. Ripreso dalla domanda che un discepolo devoto rivolge allo scrittore Mishima prima del suicidio rituale, ma rovesciato da Angela nella maledizione indirizzata a chiunque voglia veder cancellato: “Ma quando, quando t’acciri?”.
Piacere, Angela - dunque. E chissà se Franchini, quando spiega come un bersaglio favorito della madre siano le altre donne e in particolare l’ex cancelliera sua omonima (“nun facette buono Berlusconi ch’a chiammaie culo ‘e cuofano?”), ha notato che Angela Izzo è anche il femminile di Angelo Izzo, femminicida seriale la cui carriera iniziò al Circeo. Per fortuna la misoginia di Angela - uno fra i tanti difetti italiani che in lei si sommano - è tutta verbale, e possiede la comicità dirompente che producono invettiva e dialetto quando si mischiano come le polveri dei fuochi d’artificio.
Quanto alla battutaccia, Angela sta ripetendo parole che forse non furono mai pronunciate, ma tant’è: chi al tempo del governo Berlusconi s’indignava, può sempre ridere adesso: uno dei meriti del personaggio Angela è ricordarci che un fondo di bassezza ristagna in ognuno di noi. La Napoli borghese vicino a quella dei lazzaroni, gli insulti feroci e barocchi delle vasciaiole alternati alla scrittura pensosa, stirata in frasi perfette, che dà a Franchini il suo timbro inconfondibile: nel romanzo famigliare, che è anche romanzo di tutto il Sud, alto e basso si consumano allo stesso fuoco.
E se gli incipit delle storie che si sgranano intorno al tema centrale hanno qualcosa dell’antico novellare italiano (“Invece un giorno il figlio tornò ..”; “Le ho raccontato una storia …”; “Carmela era assai bella…”; “Era una vecchia che viveva da sola…”), le invettive e gli insulti raddoppiati di Angela (“puozze murì accisa, ‘sta zoccola puttana”, “… Rimini e Riccione, e tutti chilli post’ ’e merda, con un mare di merda, fangoso! Site fangosi, vuie!”) ricordano pure modelli classici, ma viene in mente piuttosto il Corbaccio, l’operetta in cui Giovanni Boccaccio, volendo ammaestrare il sapiente a tenersi alla larga dal genere femminile, compone il ritratto turpe e divertentissimo di una vedova.
Il romanzo di Angela, dicevamo, è contrappuntato di storie: ma sono le altre - quelle incontrate e non raccontate o viste solo quando si è già alla fine, secondo uno schema iniziato da Franchini in una bella narrazione di vita con i pescatori di Mazara del Vallo, racconto post-comissiano apparso tanti anni fa in “Nuovi Argomenti".
C’è la storia dello zio avvocato, modello di stile e di una virilità vittoriosa e malinconica; o quella dell’altro avvocato di provincia, uomo colto nell’eloquio quanto perduto dietro le beghe miserabili in cui si consuma la vita; o quella dell’Eroe, lo zio paterno che portava lo stesso nome dell’autore, artista promettente morto sul fronte di Cassino. Tonino Franchini pittore - lui pure personaggio di riferimento che abbiamo incontrato più volte - appare qui in forma brevissima, e lancinante come dev’essere la morte in battaglia. Il suo destino combacia con quello di un ignoto, caduto nella Grande Guerra e celebrato da D’Annunzio in una iscrizione dettata per il sacrario di Pocol: IN QUESTA TERRA DI FURORE / DOVE EGLI RICADDE RAGGIANTE DI SANGUE / PER RIMANERVI IMMAGINE DI LUCE. Ma immancabilmente, al rovesciamento e sputtanamento della retorica ha già provveduto, trenta pagine prima, Angela col riassunto impietoso della campagna di Russia del marito: “Che po’ pateto quale guerra iette a fà in Russia? La guerra d’ ’o lietto, pecché l’ammo saputo doppo chello ca sanno fà russe, bielorusse e ucraìne … Nu paese ‘e zoccole!”.
Riappare così nel Fuoco quasi tutto ciò che alimenta la narrativa di Antonio Franchini da tre decenni. Su ogni tema però posandosi uno sguardo di congedo. Perfino le arti marziali amate e praticate, con l’insegnamento a puntare dritto contro ciò che ci minaccia, appaiono smitizzate e depotenziate nella scena comica e triste di una lite agostana: gli insulti della madre come colpi reiterati e lui, il figlio, stanco e disilluso samurai che si avventa, mentre la furia si disperde contro la porta finestra di una casa di vacanza sulla costa calabrese.
Dare conto di che libro abbia voluto scrivere Franchini, quale sia la ragione ultima che lo motiva, porta a letture diverse di cui nessuna però contraddice o indebolisce le altre.
È un libro sulla famiglia. Che, se l’abbiamo avuta, sembrerebbe la storia più facile del mondo da mettere in fila e tutta in chiaro: loro sono quelli con cui hai vissuto, che hai conosciuto. Questa è la tua storia. E invece no. Quando con l’età si arriva a tirare le somme, può succedere anche che fatti, persone e ragioni di cui eravamo certissimi si dileguino (“chissà poi dopo che è successo […] forse niente di speciale, solo l’ordinario disfacimento della nostra vita”), così.
È un libro la cui linea di galleggiamento, nel senso della lingua, pesca profondamente nel dialetto, il quale, se uno lo possiede ancora almeno come suono, rinvia all’infanzia, al primo modo in cui abbiamo nominato le cose. Ed è strano allora udire il Franchini postemingueiano, scrittore dichiaratamente nemico della bravura retorica, autore di dialoghi asciutti privi di virgolette, rivolgersi qui alla madre con un “comme staie”. Come se dalla vita profonda della famiglia e del sangue, per quanto li rinneghiamo, non fosse mai possibile liberarsi del tutto.
Il fuoco che ti porti dentro, infine, è anche contemplazione della morte da parte di uno scrittore che, avendo sperimentato nella lotta il contatto con la forza e la salute dei corpi vivi, è ben attrezzato per guardare al loro disfacimento in vecchiaia con l’atteggiamento più umano - cioè a ciglio asciutto.
E si tratta di un libro con un vero e proprio finale, anche se dall’inizio alla fine non succede niente: il figlio è il figlio-scrittore che conosciamo e la madre la tempesta d’insulti che si addensa fin dalle prime pagine. In mezzo - e con questo non spoileriamo niente e nessuno - c’è una prova riuscitissima di fermare la vita. Cioè di dire come dal tutto dell’amore e dell’odio si approda al nulla, al disarmo e all’oblio. A meno che qualcuno non scriva di noi.
Perciò alla frase più impensabile che mamma italiana di figlio scrittore abbia mai profferito: “ ’o scrittore, ’o scrittore… scrittore d’ ’o cazzo, questo tu sei” credeteci senz’altro. Ma per capire, leggete fino in fondo.