
IL GATTO CERTOSINO è un'Associazione Culturale attiva a Genova dal 2009 che si occupa prevalentemente di letteratura e che ha come obiettivo la promozione della lettura. Il nome è un omaggio ai tanti gatti certosini che nel corso dei secoli hanno tenuto libere dai topi le biblioteche dei monaci certosini e di tanti altri amanti dei libri e della lettura, impedendo che molti codici, documenti e libri andassero persi. Blog precedente: https://ilgattocertosino.wordpress.com
martedì 26 agosto 2025
RECENSIONE
martedì 5 agosto 2025
GIACOMO PUCCINI TRA REALTÀ E FANTASIA
Con un’abile tecnica narrativa la scrittrice crea in questo suo nuovo lavoro una situazione originale in cui la vicenda reale di Puccini si snoda su uno sfondo fantasioso. Infatti lo scenario è costituito da un presepe napoletano, affollato di personaggi della tradizione partenopea e dell’attualità, in cui si aggiunge la comparsa della nuova figura del musicista, appena arrivato dal suo abituale mondo della lucchesia per unirsi a questa simpatica compagnia.
Anche per la sollecitazione di altri personaggi del presepe, viene rievocata tutta la vita del Maestro da Antilisca, un fantastico straordinario animale che, nell’immaginario di Puccini, abitava la zona di Torre del Lago. Si parte dall’infanzia, contrassegnata dalla perdita precoce del padre a cui seguirono difficoltà economiche per la numerosa famiglia, poi l’impegno, fin da giovanissimo, in ambito musica, secondo una consolidata tradizione familiare. Ben presto ci fu il trasferimento a Milano, per completare gli studi musicali, e a poco a poco i primi successi in campo operistico, fino all’affermazione a livello mondiale.
La rievocazione della vita di Puccini viene condotta, molto opportunamente, dalla scrittrice secondo un duplice canale, quello del suo lavoro di compositore, con il succedersi delle varie opere da Le Villi. Manon Lesacaut, Bohème, Tosca, Madame Batterfly, Il Tabarro, Gianni Schicchi, Suor Angelica, fino alla Turandot, rimasta incompiuta per l’improvvisa malattia e la morte del musicista. Tutto questo in un crescendo di riconoscimenti, applausi, consensi della critica ed entusiasmo del pubblico. D’altro lato Maria Primerano tratteggia la realtà dell’uomo Puccini, dalla personalità esuberante e appassionata, amante della caccia e della pesca a Torre del Lago, delle auto di lusso, delle case sempre più eleganti e sontuose, ma soprattutto… delle belle donne. Sfila così tutta una serie di figure femminili che hanno acceso d’amore l’animo del Maestro, a cominciare da Elvira, con cui convisse per parecchi anni, prima di sposarla, appena rimase vedova. A lei Puccini dava occasione di molti sospetti, molte gelosie, molte recriminazioni e soprattutto tanti dispiaceri per il susseguirsi delle sue avventure amorose con altre donne, di varia estrazione sociale e di caratteri molto diversi, da Corinna, “sprovveduta studentessa”, a Sybil Seligman, dell’alta società inglese, dalla cameriera Doria Manfredi, suicidatasi per le false accuse, alla Baronessa Josephine Von Stangel, alla giovane cantante aspirante al successo Rose Ader e alla popolana Giulia Manfredi, cugina di Doria, da cui avrebbe anche avuto un figlio.
Il Maestro appare così in tutta la realtà di uomo, impegnato nel suo lavoro creativo, ma sovente anche gravato da vicende sentimentali e familiari che offuscavano le sue giornate e appannavano le occasioni di felicità che gli derivavano dai successi musicali.
Tutto questo viene raccontato dalla scrittrice con espedienti narratologici molto interessanti, condotti su due binari che si intrecciamo, in quanto recupera con attenzione elementi biografici, avvalendosi di una ricca documentazione epistolare e testimoniale, ma nello stesso tempo tutto viene esposto con la frizzante vivacità che deriva dal dialogo che si intreccia con i personaggi del presepe napoletano, tra i quali primeggia Maria a’ purpettara, abilissima nel preparare polpette atte a punire i mariti infedeli…
Il mondo di Puccini viene rievocato anche grazie a una serie di interessanti foto d’epoca e con un capitolo dedicato alle ricette dei suoi piatti preferiti, soprattutto per cucinare cacciagione e pesci del lago, ma tra cui, ovviamente, non compare quella delle polpette di Maria a’ purpettara, rigorosamente segreta!
Il Puccini tratteggiato in queste pagine è senz’altro quello reale, un uomo focoso e inquieto, capace di divertirsi e di far divertire, anche con le sue espressioni sovente audacemente boccaccesche, amante della vita per tutto ciò che di bello e di buono può offrire, ma osservato dall’autrice con una forte punta di ironia, temperata dallo straniamento determinato dalla commistione di vero e di fantastico.
Una lettura davvero piacevole e interessante che ci proietta in quel tempo, tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento, in cui la vita e i costumi subirono profondi cambiamenti, orientandosi verso la modernità.
Maria PRIMERANO, Buon Natale Puccini, Arezzo, Edizioni Helicon, 2024, pp. 512, € 25,00.
mercoledì 2 aprile 2025
RECENSIONE
L’AZZURRO
DELLA POESIA
Rosa Elisa
Giangoia
La nuova raccolta poetica di Angela Caccia, autrice dalla voce personale, ampia, articolata e complessa, intitolata Di lentissimo azzurro, ci porta subito a spaziare negli orizzonti infiniti della poesia che, con le suggestioni del mare e del cielo, evoca le tonalità del colore azzurro del titolo che sembra farsi correlativo oggettivo della poesia stessa. Si entra così nell’ambito e nel tempo della poesia stessa in cui, senza soluzioni di continuità, quest’alta umana espressione si è sviluppata fin dai versi di Omero, ricchi di maestria letteraria e di sapienza esistenziale. Quell’Omero che ricompare all’inizio del testo, nella prima lirica: “Sarà servito a qualcosa / leggere Omero” (p. 11) in cui la poetessa sembra volersi ricollegare direttamente a una sua precedente raccolta, Accecate i cantori, evidenziando la lucida profetica saggezza dei poeti, visionari nella loro cecità, come l’aedo greco.
Omero ha aperto un mondo, ha regalato una prospettiva: quella di vedere ciò che ci circonda per raffigurarlo e valutarlo attraverso la poesia. Così anche Angela Caccia guarda e ripercorre il suo mondo, cioè il suo itinerario esistenziale, sub specie carminum, nell’ossimorico intreccio di luce e ombra che ci viene proposto dal suo stile fortemente analogico.
La riflessione della poetessa è incentrata sulla vita, nella sua pluralità di esperienze, nel suo svilupparsi nel tempo, che lei sa bene essere incontrollabile e misteriosa, in quanto “la condizione umana” è “un circolo vizioso del perdersi e ritrovarsi” (p. 12) in cui a fatica può penetrare la poesia, aprendo l’ipotesi che al di là ci sia “una bellezza intatta”. (ibid.) La vita è qualcosa di incompiuto nel suo mistero: “In questo campo da coltivare a / spaglio / tra neve e grano / il nostro imperfetto accade (p. 66). La vita, però, aggiunge continuamente conoscenza e consapevolezza, soprattutto con le esperienze del dolore, della sofferenza, come già insegnavano i tragici greci con la teoria del pàthos/màthos: “Mi pesa la parte di me ferita che / carico ogni giorno sulle spalle / con la stessa cura di Enea per Anchise. / A sera / ho un piccolo raccolto di cui non / vado sempre fiera” (p. 39). Misteriosa è anche la poesia, tanto che la poetessa suppone che essa chieda: “…cosa / rimane in te della mia voce?” (p. 14) a cui può solo rispondere: “vorrei parlarti di questa nostra / vena aperta / e di tutto il silenzio che resta” (ibid.) ma ben conosce la difficoltà del dire, consapevole che “Nessun verso ha il colore del pieno e / chi ne scrive sa / sa che […] / continua a galleggiare nei suoi silenzi”. (p. 17)
Intensa è la riflessione si Angela Caccia sulla poesia che sente nascere con timore e stupore nell’intreccio delle azioni quotidiane: “Qualcosa avverrà da qui a breve / un distico / forse una strofa intera – forse / c’è un legame con l’acqua che ora trabocca dalla pentole / o col sogno che insegui a pezzi” (p. 47) di fronte a cui si percepisce come “il ragno / che finalmente intreccia le sue tele” (p. 48), capace cioè di creare qualcosa di stabilmente compiuto. Ma si sofferma anche nel tentativo di definire la poesia, quel fecondo tentativo di congiungere parole che consolino e orientino: “La parola che pesa / si trasforma in seme: la interri / e mentre semini / cresce il tuo desiderio di crescere / e con lei stare bene in quello / smottamento che resta solitario / e mai realmente solo” (p. 61).
Profonda è la riflessione sulle situazioni dell’umana esistenza, come l’infrangersi di rapporti interpersonali positivi: “Noi / che fummo voce e linguaggio / l’uno all’altro / ora / ci guardiamo di sfondi / ognuno da un confine di croci” (p. 13), ma anche sulla drammatica impossibilità di modificare il nostro passato: “Poter tornare indietro e scegliere / magari / l’alternativa scartata…” (p. 24), nell’unica certezza di andare inesorabilmente verso la fine del nostro esistere: “Chi pensava / di doverla scontare la gioventù?! […] Presto o tardi saremo tutti Lee Masters / parleremo anche noi con la voce dei morti”. (p. 26)
A rimanere immutato è lo scorrere del tempo nel mondo della natura con il susseguirsi delle stagioni, a cui la poetessa dedica versi con tocchi descrittivi e riflessioni esistenziali: “Una folata scosse il leccio” (p. 18) apre un quadro dell’autunno, contrassegnato da una punta di rammarico, mentre in Qui da me viene tratteggiato “un maggio qualunque” (p. 19) e in Da dove vieni? Dove sei stata? la poetessa evoca “l’estate più speziata”. (p. 21)
Emerge anche una vena di poesia civile, teorizzata in Capita (“ma la poesia civile è sangue – indelebile / nell’affronto/confronto / bianco e nero Yin e Yang”, p. 169) che trova voce di responsabilità e denuncia in La parola di fronte al naufragio di migranti con “cento morti” (p. 23) a Steccato di Cutro.
Le riflessioni, le emozioni, le esperienze, gli stati d’animo sono la sostanza della poesia di Angela Caccia, ma tutto questo nei suoi versi si fa espressione lirica attraverso una fantasmagoria di immagini evocative di forte originalità, di ricercatezze espressive finalizzate a un discorso sapienziale che non offre risposte, ma invita alla riflessione e alla ricerca nella dimensione interiore ed esteriore.
Come ogni poesia, anche quella di Angela Caccia, nasce dall’esperienza del mondo e della vita personale, ma acquista valore e interesse per l’originalità del piano espressivo: il suo è un linguaggio di forte originalità creativa, sostenuto da un’efficacia espressiva che sa farsi comunicativa. Questo nasce dalle metafore ardite, dalle sinestesie forti, dall’aggettivazione spiazzante per accostamenti di campi semantici disomogenei fin dal sintagma del titolo “lentissimo azzurro”, capaci di creare quelle onde si suggestioni espressive che percorrono e sostengono tutta la silloge poetica.
Angela CACCIA, Di lentissimo azzurro, Pasian di Prato (UD), Campanotto Editore, 2024, pp. 69, € 13,00.
mercoledì 11 dicembre 2024
RECENSIONE
Biagio Coco
Per quanto possano apparire prosaici rimandi alla quotidianità, i cibi e le bevande, gli spazi della cucina e della tavola, le dinamiche dei pasti e le occasioni conviviali, con le loro relazioni, sono indiscutibilmente segni e ‘ingredienti’ di universi compositi di significati che è possibile rinvenire in numerosi testi letterari antichi e moderni, in manifestazioni artistiche figurative e filmiche di epoche diverse, come anche nell’opera di molti scrittori ormai classici della letteratura italiana del Novecento. Partendo da queste considerazioni Franco Zangrilli nel saggio Muse della tavola rivolge la sua puntuale indagine critica all’opera narrativa di Tozzi, Savinio, Pavese, Levi, Calvino e Tabucchi (destinando il settimo e ultimo capitolo agli scrittori di oggi e ai cibi della cucina postmoderna) e ci invita alle tavole di questi autori, definendone, come fa nel titolo di ciascun capitolo, le inconfondibili atmosfere.
Vere e proprie
‘muse’ capaci di raccontare e
rappresentare la vita, la materia cibaria e le bevande sono per questi
scrittori contrassegno identitario utile a descrivere l’ambientazione sociale e
l’evoluzione storica delle vicende narrate; forniscono l’occasione per presentare
le situazioni biografiche, gli aspetti caratteriali e gli stili di vita dei
personaggi, evidenziandone tanto le aspirazioni quanto le inquietudini;
diventano lo strumento attraverso cui questi autori rendono manifesta la propria
visione del mondo e alimentano la propria ispirazione a parlare di altri
argomenti su ben più alti “piani d’universalità” (p.15); ma riescono anche, in
ultima istanza, a farsi simbolo del processo creativo, quando non anche di
quella ‘fame per la vita’ e di quella ‘sete di sapere’ che alimenta e sostanzia
la scrittura.
In questa serie di
ideali inviti gastronomici d’autore, se Tozzi ricorre ai termini culinari per presentare
il carattere contradditorio dei suoi personaggi, se narra del loro rapporto
infelice con il cibo e carica il mondo della tavola dei sapori dell’amarezza e
della drammaticità, è per servirci una vivanda
ossimorica. Nella trattoria in cui è
ambientato il romanzo Con gli occhi
chiusi Domenico Rosi con il suo carattere ambiguo e irascibile “rende la
trattoria uno spazio dell’aggressione e della violenza” (p.23); al contrario di
ciò che dovrebbe essere, essa viene presentata come un luogo in cui si muovono
cuochi e avventori trascurati e primitivi, in cui prevalgono gli scarti dalla
dimensione ordinaria del comportamento e dei sentimenti; un luogo da cui Pietro,
figlio di Domenico, evaderà dopo aver attraversato la sua ‘famelica’ passione
per Ghisola. In maniera ancora più evidente nel romanzo Tre croci la tavola si fa specchio rovesciato dell’ignavia e degli
egoismi dei tre fratelli Gambi che si indebitano “per sostenere le spese
eccessive dei piaceri-vizi-peccati della gola” (p.35) e dietro la noncurante e
‘allegra’ consumazione dei loro pasti, mascherano il mantenimento di uno status
sociale ormai compromesso e vivono abulici nella trappola dell’autodistruzione. L’identificazione ossimorica’ tra la materia
del cibo e il destino del personaggio è presente anche in molti racconti dello
scrittore senese, dove il cibo e il vino non riescono a sfamare sensi di colpa
e solitudini e si fanno metafora di una tragica mancanza di affetti.
La tavola di
Savinio è un mosaico di
incomunicabilità. È disunita e i commensali che la popolano si servono con
indifferente distacco, rimuginando sui propri pensieri e appetiti, “assenti o
assorti nelle proprie chimere” (p.70). Come nel romanzo La casa ispirata, dove, tra le presenze ‘mangianti’ di un’insolita
abitazione parigina, la successione dei pranzi e delle cene assume i contorni
di uno scenario surreale volto ad esprimere le anormalità dei convitati che la
popolano, dando vita, per usare le parole dello scrittore, ad un “convito di
necrofagi” (p.70). Sgradevole, putrido, marcio è anche il cibo consumato: una
raffigurazione con toni orrendi, gotici conditi di ironia amara in cui “la
degenerazione dell’universo gastronomico allegorizza il degrado attuale della
società, della cultura, della conoscenza” (p.71). Il tema della tavola, nella
produzione successiva di Savinio si fa “ossessivo” (p.86): nei racconti della
raccolta Il signor Dido, ultima
maschera dello scrittore, veicola più complessi ed eterogenei messaggi della
condizione esistenziale dell’uomo e del processo meta-artistico della
scrittura. Così, la tavola, domestico campo di battaglia, si farà metafora di
tutte le guerre (Genitori e figli);
un pranzo troppo abbondante non permetterà che vengano affrontati argomenti più
elevati, lasciando Dido in preda all’amara constatazione di non essere stato in
grado di “cucinare il piatto della scrittura” (p.94); e la minor quantità di
cibo che l’uomo è costretto a mangiare per ragioni di salute (Piatto piccolo) ci confermerà, anch’essa,
la “profonda decadenza dell’io” (p.87).
I numerosi
riferimenti al cibo presenti nell’opera di Pavese, a cui è dedicato il capitolo
successivo, sono solo in apparenza realistici: veicolano un groviglio di
messaggi propri della poetica dello scrittore che li rende un alimento mitico-fantastico. Al centro
dell’analisi di Zangrilli campeggia il confronto tra Paesi tuoi e La luna e i falò.
Nel primo romanzo, in una “realtà campagnola […] tagliata fuori dalla civiltà”
(p.100) per Berto e Talino il cibo si fa epifania di messaggi archetipici e
mitici. Dove la terra mangia come e più degli uomini, dove essa li nutre materna
con le sue colline-mammelle e i riti della vendemmia e della campagna sono vivi
delle perenni mitologie agresti, è inevitabile che Gisella, amata da Berto, sia
mela, ciliegia, sia “fatta di frutta” (p.104); come è inevitabile che il suo
brutale omicidio, frutto di un’incestuosa gelosia, non interrompa il pasto
successivo e non intacchi la natura ferina dell’essere umano. Nel romanzo La luna e i falò, invece, seguendo il
ritorno di Anguilla al paese natale, la natura simbolica del cibo viene ripresa
e diversamente modulata ora in chiave mitico-fiabesca ora in chiave fantastica.
Sul binario di una doppia visione tra la favola della giovinezza e la
rielaborazione fantastica del presente, il protagonista rivede i luoghi della
sua infanzia, i sapori del passato, ritrova l’amico Nuto che ha saputo custodire
la memoria dei luoghi e il sapore dei valori di saggezza e altruismo anche nel
presente. E in ciascuna delle esperienze vissute, i cibi reali e metaforici
riassaporati da Anguilla non smettono di essere referenti della portata fantastica
della vita.
Nell’analisi di Se questo è un uomo, contenuta nel
capitolo Levi: nutrimento di tempi
orrifici l’assenza di cibo, la fame e la sete sperimentate nella realtà atroce
e del lager hanno una rilevanza notevolissima, a partire dal pane che non solo
è allusivo di tutti i cibi che non si possono mangiare, ma diventa anche “un
deuteragonista o una sorta d’ombra fantasmatica o un incubo orroroso” (p.141). Zangrilli
evidenzia con raffinata puntualità come la narrazione di Levi denunci,
attraverso l’assenza di cibo, nutrimento fisico e spirituale, la perdita della
normalità e della dignità dell’essere umano; sottolinea poi come la sua
scrittura sfrutti i mezzi umoristici della “sovversione, della giustapposizione,
dell’antinomia” (p.154) proprio per descrivere la condizione in cui l’uomo
sembra ridursi a coincidere con la sua stessa fame. Ci presenta così gli uomini
che recuperano il cibo nella dimensione onirica, quelli che lo usano come
‘moneta’ di scambio per sopravvivere trasformandosi in tragici antieroi: nel campo di sterminio, vero e proprio
‘regno’ della fame, il cibo consumato in piedi enfatizza la degradazione
dell’essere umano ad una dimensione bestiale. Nel testo successivo, La tregua, la fame, il freddo e la guerra si confermano sinonimi delle
miserie dell’uomo e del dolore dell’esistenza, ma durante questo viaggio di
ritorno le occasioni conviviali sono anche l’occasione per ritrovare e
ristabilire rapporti umani, riassaporare la libertà e una normalità in cui
“mangiare” coincide con il “raccontare” (p.169).
Alla tavola di
Calvino si possono trovare vivande di
stagioni diverse quante sono le età della vita, le fasi compositive
attraversate dall’autore e i periodi vissuti dalla società italiana dal secondo
dopoguerra in poi. Operando una sapiente quanto ironia riscrittura di topoi letterari, Calvino trasforma i
riferimenti al cibo in articolati paradigmi di istanze conoscitive e di motivi sociali,
in modelli della “sete cognitiva e creativa” dei suoi personaggi (p. 207), in
immagini segniche con cui interpretare la società contemporanea. Si fornisce
qualche ‘assaggio’ delle numerose opere prese in esame da Zangrilli. Il
linguaggio gastronomico nel romanzo Il sentiero
dei nidi di ragno serve diffusamente a narrare le vicende del giovanissimo
Pin, divenendo cruda metafora della sua conoscenza
della vita e del mondo degli adulti; è utilizzato per descrivere la tragedia
della guerra che distrugge i raccolti e affama gli uomini, ma testimonia anche il
bisogno di protezione e affetto paterno che il ragazzo troverà nel partigiano
Cugino e nella sua mano “fatta di pane” (p.180). Nel Barone rampante troviamo un altro adolescente (Cosimo Piovasco) e un’altra
epoca (il 1776). Dopo aver rifiutato le detestate pietanze a base di lumache ed
essere stato cacciato da tavola con asprezza dal padre, Cosimo si rifugia a
vivere sugli alberi: “un intricato rifiuto simbolico” (p.199) che unisce il
gusto per la contestazione al desiderio del giovane di crearsi una propria
identità. In questa libertà alimentata dai ‘sapori’ fantastici di Cosimo, tra
una capanna sugli alberi che si fa “reggia” e i frutteti che sembrano animarsi,
prendono vita le sue nuove istanze sociali, il suo gusto per la libertà e per
la giustizia, e la sua sete di conoscenza non può che concludersi oltre, sopra
il mare. Così con le raccolte di racconti che hanno come protagonisti
Marcovaldo e Palomar, dove tra passato e presente, i cibi come gli stessi
personaggi diventano emblemi del consumismo, della società italiana del
dopoguerra e della condizione postmoderna, tra funghi velenosi e fiumi blu,
ammalianti supermarket e musei di formaggi, emblemi di una conoscenza sempre
più astorica, effimera, inconsistente.
L’ultimo invito d’autore
è quello di Tabucchi. Frutto di due tradizioni culinarie diverse, quella spagnola
e quella portoghese, perfettamente note allo scrittore, la sua tavola di intellettuali e fantasmi non
solo rivisita e recupera le pietanze tradizionali del passato ponendole a
confronto con le abitudini alimentari contemporanee, ma impasta attraverso il
cibo ben più stratificate dialettiche. Accade in Requiem dove il protagonista in giro per le vie di Lisbona,
nell’attesa di incontrare a mezzanotte il fantasma del “grande poeta” immagina
di vedere persone ormai defunte, di parlare con loro, di salutarle in un ideale
commiato, in una successione di fantasmatici incontri costellata di occasioni
conviviali e conoscitive attraverso i quali si ha l’impressione che Tabucchi
“stia costruendo un variopinto banchetto letterario” (p. 237). Così, in un
tempo in cui le ricette antiche sono soggette a inevitabili variazioni, mentre i
piatti della tradizione perdono la memoria del passato per venire incontro ai
gusti contemporanei, ora che ogni piatto è l’amalgama di elementi oggettivi e
della creatività individuale, l’incontro con il Poeta non può non avere al
centro “l’intricata relazione tra il modernismo e il postmodernismo (pag. 239)
e svolgersi di fronte ad una tavola con il suo menu che è una ‘carta poetica’,
dell’inquietudine e dell’incertezza. In Sostiene
Pereira, in una Lisbona sotto il regime dittatoriale di Salazar, mentre
‘tutta l’Europa puzza di morte’, il vecchio giornalista Pereira, preda dell’obesità,
soffocato e rallentato dai ricordi del passato, si illude di curare la
solitudine e le ferite dell’anima per la perdita della moglie attraverso un
rapporto autodistruttivo con il cibo. Nel suo bisogno di socialità, la tavola
si fa inevitabilmente segnica: del suo disagio esistenziale (che si manifesta
nella consumazione sempre delle stesse pietanze per lui non salutari, quali limonata
e omelette alle erbe aromatiche); del suo immobilismo (visibile nella
frequentazione degli stessi luoghi come la sua stanza-redazione ammorbata dal
puzzo di frittura dei piatti cucinatigli dalla portinaia o il Cafè Orchiedea
che abitualmente frequenta); della sua angoscia (nella lotta con il cibo e nel
rifiutarsi di seguire i consigli dei medici). La progressiva conoscenza di un giovane
giornalista, Monteiro Rossi, suo alter ego “agile e magro”, come anche la cena
in cui Pereira, che dà ospitalità e rifugio al giovane uomo, deciderà di
assumere la “veste di cuoco” (p.255), ritrovando la capacità umana e
meta-artistica di immaginare e creare nuovi piatti, non renderanno vana la
tragica uccisione del giovane giornalista ad opera di funzionari della polizia
segreta. Pereira sarà capace di “denunciare i mali del suo tempo” (p. 256) e di
fuggire in un paese democratico.
Il capitolo
conclusivo del saggio di Zangrilli non è dedicato ad un autore, ma ad un libro singolare,
Dai fiori del male ai fiori di zucca,
un testo collettivo ed “enciclopedico degli aspetti del cibo nella società
postmoderna” (p.268) costituito da centotrentotto componimenti realizzati per
lo più da autori e autrici campani assieme ad altre pagine di scrittori di
epoche diverse e raggruppati in sezioni che riproducono la successione delle
vivande di un pranzo. Zangrilli presenta i tratti comuni a questi testi, in
molti casi brevi e aventi la forma di una nota o di un paragrafo: la prosa
chiara e incisiva, l’utilizzo del paradosso, della caricatura, “dell’ironia che
mentre intrattiene demitizza” (p. 269), l’ispirazione della riscrittura di
moduli e temi della tradizione letteraria, la memoria. Partendo dalla dimensione
realistica di cibi e bevande, questi testi costruiscono storie dai risvolti più
ampi e di taglio universale, volti a scavare nella dimensione tragica della
vita, indagando ora i motivi dell’amore e della separazione degli amanti (“I
felafel”, “Mais”), ora quelli del rapporto tra cibo e sesso (“Dopo cena”,
“Lasagna classica napoletana”), la tematica del tradimento con i suoi toni
umoristici (“Il purpo ‘mbuttunato”), la favola dell’orrore e il tema
dell’antropofagia (“Il pane rituale”). Del resto, anche nella contemporaneità,
mentre gli individui sperimentano la “vertiginosa trasformazione della vita dei
tempi attuali” (p. 287), sempre più privi di coscienza storica, sempre più
incoerenti, il cibo non smette di esprimere “lo stato psicologico
dell’individuo” (p. 289) o, come dice Calvino, il “senso d’una mancanza, d’un
vuoto divorante”.
FRANCO ZANGRILLI, Muse della tavola. Cibi e bevande in scrittori contemporanei, Pesaro, Metauro Edizioni, aprile 2024, pp. 299, € 24,00.
lunedì 25 novembre 2024
RECENSIONE
Aldo Meccariello
Il volume si apre su Gabriele D’Annunzio che ambienta ad Anversa degli Abruzzi, presso le Gole del Sagittario, oggi riserva naturale, la sua Fiaccola sotto il moggio, tragedia in versi, composta dal Vate agli inizi del ’900 e inserita in quel filone di «smembramento familiare iniziato nel Trionfo della morte (1891) e poi sviluppato nelle Vergini delle rocce (1896)» (p. 9). Certo, questo inserimento in apertura del volume conferma a pieno titolo, a dire dell’Autore, la vitalità rinnovata del motivo abruzzese nell’opera dannunziana, visto l’inverato amore del poeta per i suoi luoghi natii che sono però sempre trasfigurati, mitici e non realistici. A dire il vero, la collocazione di D’Annunzio nel solco di una linea regionalistica rimane sempre problematica ma non è forse il tempo di sottrarlo alla sua specificità abruzzese?
Andrea Giampietro offre al lettore una galleria variegata e articolata di profili di poeti e scrittori abruzzesi che si sono misurati con la potenza espressiva del dialetto, lingua viva. Fra tutti spicca la figura di Vittorio Clemente, tra i maggiori poeti dialettali abruzzesi, giunto alla ribalta nazionale grazie alla raccolta Acqua de magge (1952) con la prefazione di Pier Paolo Pasolini che lo include nella raccolta della Poesia dialettale del Novecento (1952) e poi oggetto di saggi e studi da parte di autorevoli critici e poeti come Giannangeli, Fortini, Caproni, Petrocchi, Spagnoletti. Trasferitosi a Roma agli inizi degli anni ’40, si dedica agli studi sulla poesia romanesca (Belli, Trilussa, Pascarella, Jandolo, Lombardi, Terenzi) e nel 1970 esce poi la sua opera omnia, esempio mirabile di poesia lirica dialettale.
Giampietro nel suo accurato lavoro registra un risveglio della cultura abruzzese sul fronte degli studi storici, linguistici e letterari, ben distante dalla mera cronaca regionalistica o localistica e si sforza con risultati eccellenti di restituire a ciascun profilo uno spessore nazionale ed europeo. A riprova si lascia guidare lungo i vari saggi dal magistero del critico letterario Ottaviano Giannangeli (1923-2017), a cui dedica diversi capitoli, e in esergo il volume. Poliedrica figura di intellettuale, Giannangeli fu professore universitario, poeta, narratore, saggista e traduttore; s’interessò principalmente a D’Annunzio, Montale, Pascoli e Camerana, nonché ai grandi autori dialettali come Clemente, Postiglione, De Titta e Luciani; studiò il dialetto come lingua del popolo «perché nessuno come lui è riuscito, nel secondo Novecento abruzzese, a rendere cantabile, in una lingua comprensibile al contadino, l’ampio raggio del suo genio poetico» (p. 96). Inoltre, fu fondatore e co-direttore, insieme a Giuseppe Rosato e Giammario Sgattoni, della rivista “Dimensioni” (1957-74) che mirava a riunire le più fervide forze intellettuali della regione al fine di avviare un confronto dialettico con le migliori realtà del panorama culturale nazionale e internazionale.
La sua attività di critico si è realizzata in numerose pubblicazioni antologiche e saggistiche, tra le quali Canti della terra d’Abruzzo e Molise (1958), Poeti dialettali peligni (1959), Umberto Postiglione (1960), Qualcosa del Novecento (1969), Operatori letterari abruzzesi (1969), Pascoli e lo spazio (1975), La bruna armonia di Camerana (1978), Metrica e significato in D’Annunzio e Montale (1988), Parole d’Abruzzo. Otto poeti dialettali della regione (2001), Scrittura e radici. Saggi 1969-2000 (2002). La sua poesia si alza chiara e sicura a celebrare anche l’appartenenza a un territorio, alla sua storia, alla sua comunità. Il lettore è invitato ad approfondire questa tematica in un capitolo denso e teorico, Ad accoppiar parole. “Dialettale” e “popolare” nella poesia di Giannangeli, da cui si evincono le linee guida dell’intero impianto del lavoro di Giampietro che sottolinea come la sua poesia smentisca la presunta incompatibilità tra lingua letteraria e lingua parlata, come il dialettale e il popolare si fondino nel medesimo significato: «la scrittura in dialetto di Giannangeli non è la semplice risoluzione di un’anima nutrita da motti e canti popolari ma la consapevolezza che certe cose, certe inclinazioni dell’animo, certe condizioni del sentire universale, non possano esprimersi che nella lingua nativa» (p. 101). L’abruzzesità non può non rivivere, non può non rigenerarsi di continuo nella lingua materna. Ecco il filo conduttore di questi Studi di letteratura abruzzese che confermano come l’esperienza della poesia dialettale rappresenti una vera e propria seconda tradizione altrettanto alta, altrettanto colta della poesia in lingua italiana.
Anche il capitolo dedicato a Giuseppe Rosato, il poeta di Lanciano, oggi novantaduenne, scava nelle pieghe della sua opera poetica in lingua e in dialetto e riporta alcuni assaggi di esegesi testuale delle sue raccolte poetiche. In libri come La cajola d’ore, Ecche lu fredde, L’ùtema lune, E mò stém’ accuscì, La ’ddòre de la neve e Jurne e jurne, Rosato si affida al dialetto e alle sue componenti fonetiche e morfologiche, rievocando i lati crepuscolari dell’esistenza: «Io qui nel buio, sono tutto, tutto» (p. 133).
Un inserimento sorprendente è quello di Umberto Postiglione (1893-1924), rivoluzionario e anarchico di Raiano che partecipò alle lotte politiche e sindacali negli Stati Uniti e in America del Sud per fare poi ritorno in Abruzzo ove scoprì la sua vocazione di poeta e maestro elementare (a tal proposito è rilevante l’intervento, intitolato L’autoeducazione del maestro, ch’egli tenne al Congresso Magistrale dell’Aquila del 17 Novembre 1923); sarebbe morto a soli trent’anni. A riportare l’attenzione su Postiglione poeta e pedagogo è instancabilmente Giannangeli che accede al suo archivio personale e ne cura un’antologia nel 1960.
Ma veniamo ai nodi più problematici della discussione di natura letteraria e ideologica intorno alla specificità abruzzese che Giampietro illustrata nel capitolo dedicato alla corrispondenza tra Giannangeli e Silone, Fontamara non è in Abruzzo. Giannangeli nel 1957, anno di fondazione della già richiamata rivista, “Dimensioni”, redige una sorta di manifesto invitando intellettuali, studiosi, politici a dare una mano per il rinnovamento della cultura abruzzese in tutte le sue forme: «Non c’è problema che vi impegni a fondo, e che vi ponga davanti alla vostra responsabilità di Abruzzesi, più di quello della cultura. […] Non si dà risveglio, neppure nella sfera economica, industriale e commerciale, che non si configuri nella storia della civiltà, ossia nell’evoluzione integrale dello spirito» (p. 81). All’appello risponde Ignazio Silone che rifiuta non solo l’invito a collaborare ma contesta le linee teoriche della rivista (nata col titolo di “Rivista abruzzese di incontro e di allineamento culturale”, poi mutato in “Rivista abruzzese di cultura e d’arte”) e stigmatizza l’espressione “allineamento culturale” come una frase da “maestro di ginnastica”. L’autore di Fontamara non crede nella specificità della cultura abruzzese: «Non sarebbe più realistico discorrere di partecipazione degli abruzzesi alla cultura occidentale o cristiana o mediterranea, secondo quello che si preferisce?» (pp. 83-84). Giannangeli con determinazione e robustezza intellettuale ribadisce il suo intento di aprire l’Abruzzo a nuove dimensioni, a nuovi ideali di cultura e di civiltà, fiducioso che lo scrittore marsicano ci ripensi. Da questi brevi stralci del carteggio viene fuori l’idea di cosa significhi “letteratura abruzzese”, di cosa significhi guardare all’Abruzzo come specchio emblematico di civiltà e di orgoglio, come potente metafora del mondo per usare un’espressione di Leonardo Sciascia che si riferiva alla sua Sicilia.
Il volume si chiude su Pasolini e l’Abruzzo, dedicato a un rapporto molto stretto iniziato grazie a Vittorio Clemente che aveva aiutato il poeta friulano a trovare un posto di insegnante in una scuola privata di Ciampino agli inizi del 1950 e poi proseguito negli anni a venire con periodici dibattiti a Teramo, fino alla tragica morte di Pasolini nel 1975 all’idroscalo di Ostia.
Questo libro di Andrea Giampietro dovrebbe circolare molto nelle scuole e non solo tra addetti ai lavori o tra lettori specializzati perché offre tanti spunti e stimoli per approfondire la letteratura abruzzese anche nel contesto della cultura nazionale ed europea e ancora di più è una traccia significativa per mettere a punto una storia civile degli intellettuali della terra d’Abruzzo.
Andrea Giampietro, Studi di letteratura abruzzese, Ortona, Edizioni Menabò, 2024, pp. 206, € 15,00.
giovedì 31 ottobre 2024
martedì 10 settembre 2024
RECENSIONE
LA RINASCITA DI UNA DONNA

Questo è appunto la situazione di Sadia che, appena diventata donna, viene obbligata, nonostante il suo desiderio di continuare a studiare, a sposare un uomo mai visto prima, che si dice abbia fatto fortuna a Roma. Sadia, senza alcun sostegno nella sua famiglia, anzi fortemente indotta dalla madre e dalla nonna a obbedire a questa scelta fatta da altri per lei, acconsente e si trasferisce a Roma, dove deve purtroppo rendersi conto che la condizione sociale del marito non è economicamente florida, come le avevano fatto credere, e dove inizia per lei un calvario di convivenze forzate in appartamenti sovraffollati per la presenza di altri connazionali che le impongono pesanti incombenze domestiche, a cui si aggiungono i turni massacranti nelle attività di pulizie condominiali del marito che diventa il suo più violento oppressore nel lavoro e nei rapporti personali, contrassegnati da stupri e maltrattamenti, anche dopo la nascita di due figli, fino alle minacce, e poi ai tentativi, di ucciderla. Per il marito è tutto nella norma del suo essere padrone della moglie, in base alla concezione tradizionale dei rapporti matrimoniali nel suo paese.
Dopo il susseguirsi di tante vicissitudini, Sadia, che non ha avuto neppure comprensione e protezione da parte della sua famiglia d’origine durante un breve rientro in Bangladesh, trova la forza di denunciare il marito e di affidarsi alla tutela che la legge può concederle in Italia: di qui inizia per lei la via della fiducia nella giustizia, ma anche in se stessa e in altre persone che l’aiutano a costruirsi una vita autonoma, insieme ai suoi figli, lontano dai soprusi e dalle prevaricazioni del marito, ormai condannato e incarcerato.
Tutte queste vicende vengono narrate da Donatella Mascia con un’organizzazione della fabula secondo un intreccio accattivante e coinvolgente per il lettore, ma anche con abili approfondimenti psicologici che costruiscono con verisimiglianza la personalità di Sadia, i suoi turbamenti e le relazioni con la famiglia, il marito e gli altri personaggi, a cui si aggiunge una convincente ricostruzione socio-economica del Bangladesh che dimostra un’ottima documentazione su quel paese, lontano da noi non solo geograficamente ma soprattutto per usi, costumi e tradizioni.
L’intento principale dell’autrice è senz’altro quello di far emergere con questa emblematica vicenda la difficilissima situazione in cui vivono le donne nei paesi dove domina ancora la forte tradizione dell’islamismo più radicale, condizione che, purtroppo, ha avuto ricadute anche qui in Italia con dolorosi episodi di cronaca che hanno creato sbigottimento e sconforto nell’opinione pubblica. La questione si incentra sulla mancanza di libertà di autodeterminazione per le donne, bloccate nei loro progetti di vita e obbligate a matrimoni imposti dalla famiglia. Tutto questo avviene in situazioni di forte e acritica adesione alla tradizione sociale e religiosa, in forme e modi che a noi, eredi dell’evoluzione della mentalità derivante dal Rinascimento e dall’Illuminismo, appaiono incomprensibili e inaccettabili. Dobbiamo, però, pensare che per lungo tempo, anche nella nostra cultura, il matrimonio è stato vissuto come un contratto, sulla base di convenienze familiari, più che come un legame affettivo e sentimentale tra due persone. A mettere in discussione questa visione del matrimonio hanno fortemente contribuito diverse opere letterarie, come Giulia o La Nuova Eloisa di Rousseau, I dolori del Giovane Werther di Goethe e Le ultime lettere di Jacopo Ortis del Foscolo, spostando l’attenzione sulla sfera soggettiva e sulla personale consonanza psicologica determinante per l’amore come fondamento del matrimonio. Possiamo quindi sperare che la letteratura, con buoni romanzi, come questo, capaci di prospettare problemi, ma anche di indicare vie di risoluzione, possa ancora contribuire ai cambiamenti di mentalità, anche se oggi ci sono molti altri soggetti che entrano in gioco.
Donatella MASCIA, Sadia storia di una donna, Genova, Stefano Termanini Editore, 2024, pp. 271, € 18,00.