mercoledì 17 febbraio 2021

 


ESTINZIONE O TRASFORMAZIONE?

 Rosa Elisa Giangoia



La nuova silloge poetica di Lucetta Frisa Cronache di estinzioni dà già nel titolo la chiave interpretativa del testo e rivela l’atteggiamento dell’autrice verso la vita e il mondo in cui ci troviamo. Tutto ciò che fenomenologicamente ci circonda, che appare ai nostri occhi, l’ambiente in cui viviamo e con cui interagiamo è sulla strada di un’implacabile dissoluzione. E la poetessa guarda a questo mondo da un’alta posizione di ampio orizzonte, per coglierlo in tutte le complessità, ma anche e soprattutto nei piccoli segni rivelatori della dissoluzione che solo la sensibilità di un animo da poeta può saper cogliere ed esprimere, facendosi profeta.
L’orizzonte è immenso, assoluto in senso diacronico e sincronico, in una percezione in cui il prima, l’ora e il dopo stanno insieme in un equilibrio troppo labile per persistere senza rivelare, a chi ha la sensibilità per coglierle, le anche minime, impercettibili avvisaglie del crollo incombente, destinato a far precipitare tutto nell’annientamento totale.
Emblematica si pone, in apertura della silloge, l’accorata e affettuosa lirica per la madre (Per mia madre), come taglio netto con il passato, quello di «mille estati fa», fuggito in una nebbia d’indeterminatezza che rende la donna «ora, incerta, molto incerta», ma nei cui confronti la figlia recupera una realtà e un’intesa gratificante, rappresentata dalla possibilità di sorriderle («mi sorridi»), per cui non può immaginarla annientata nel nulla.
Ma a imporsi è, nelle liriche successive, la dimensione universale della vita: l’esperienza del reale (Crolli) si ingigantisce, si moltiplica e sfaccetta in una pluralità di eventi, che determinano un sovvertimento dell’ordine della vita, dei rapporti degli uomini tra di loro e tra gli uomini e gli animali (Natura morta).
Metonimia di questo dissolversi insito nell’ordine delle cose è l’Antartide, 1 («Basta lo scioglirsi/ di un qualcosa che subito si scioglie piano piano/ tutto il resto trascinato da questo alzarsi delle maree/ da questa energia segreta») che ha, però, un certo qual recupero positivo in Atlantide, 2 con l’idea che la vita si pietrifichi nel freddo del ghiaccio lasciando memorie da scoprire nel perdurare del tempo.
Le poesie hanno toni e andamenti diversi, talvolta il testo è narrativo, nell’ampiezza e nella calma, talaltra, più rapido e spezzato, ma è sempre un narrare, senza narrare, perché da narrare non c’è nulla, c’è solo da avere l’attenzione dell’osservazione per percepire le avvisaglie del precipitare nell’«estinzione». Per questo le liriche si orientano verso un prevalere dell’irreale, un irreale che subdolo si insinua nel reale, lo sgretola, lo mette in crisi, con quegli espedienti che noi, nella realtà, conosciamo solo nell’esperienza onirica (Un sogno). In questo modo il reale appare senza una sua intima consistenza, in un intreccio misterioso di vita e di morte, che finiscono per compenetrarsi e confondersi (Mitobiografia). È un impercettibile, ma costantemente reale, perdersi, per cui l’atteggiamento della poetessa non può che essere rinunciatario: «Lascio andare. Mi lascio andare. […]/ Io sulla sabbia scivolo verso il mare» (Etna). Questo anche perché tutto quello che accade intorno a noi avviene indipendentemente da noi, nella nostra inconsapevolezza e incomprensione: «Se della vita non c’è riparo/ forse la saggezza è non cercare nulla?» (London Valour).
Tutto sembra apparentemente normale, ma sono i piccoli episodi del reale a diventare indizi di quell’imperfezione capace di far precipitare tutto nel baratro dell’«estinzione». La primavera sembra preannunciare il risveglio della natura, invece non è così: si verificano «mutamenti/ incontrollabili» (Alienazione) che fanno precipitare nell’orrore. Ma da una lirica all’altra, quasi per lenta metamorfosi interna alla poesia stessa, il percorso d’«estinzione» sembra sempre più determinarsi per colpevoli comportamenti dell’uomo per cui «La terra lentamente si ricopriva di gusci di conchiglia/ soffocando ogni intenzione di vita: il suolo duro e arido/ la stringeva in una morsa letale.» (Plastica). Nello stesso tempo tutto si enfatizza nell’esagerazione, il cucinare e il mangiare, l’andare troppo in giro, soffocando la bellezza dell’arte e del paesaggio, il rimuovere forsennatamente la vecchiaia e l’individuale decadenza, fino a soffocare l’«ARIA» (Qui dove noi siamo) ed essere soffocati dagli oggetti frutto di una tendenza compulsiva agli acquisti.
Ma forse non tutto andrà perduto, molto cambierà, ma ci adatteremo, grazie all’«insensibile adattabilità umana» (Eremocene).
Lucetta Frisa ci prospetta l’evoluzione catastrofica che potrebbe verificarsi, ma che presuppone (o spera) non si verificherà. Lo spettro della fine aleggia, ma rimane una qualche possibilità di resistenza, affidata anche alla forza dirompente della parola poetica capace di recuperare e riproporre bellezza, in grado di prospettare barlumi di futura salvezza a cui affidarsi.
Tutto questo suo pensare sulla vita e sul mondo la poetessa lo dice con parole leggere, piene di grazia, talvolta con pacato argomentare, talaltra con frizzante creatività, venata di un umorismo e di un’ironia sottile che produce poesie accattivanti e coinvolgenti.


LUCETTA FRISA, Cronache di estinzioni, Pasturana (AL), puntoacapo, 2020, pp. 68, € 12,00

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