Rosa Elisa Giangoia
La Riviera di Levante in Liguria ha ispirato molti poeti, italiani e stranieri, ma con il suo contrastante paesaggio, fatto non solo di luminosa solarità marina, ma anche di asprezza e tortuosità, ha determinato approfondimenti, riflessioni e meditazione. Così è per questa nuova raccolta poetica di Domenico Camera Canti della Pietra marcia (Interlinea, 2021) che prende il titolo da una località sulle alture di Deiva Marina, dimora estiva del poeta, così chiamata «per via della debole pieta, facile a frantumarsi, che lì si trova. Ossi della terra sparsi sui declivi corrosi e lungo le aperture di roccaglia» (p. 65).
Dopo un silenzio poetico di diversi anni in questo luogo è rinata l’ispirazione per Domenico Camera: «La vita nuova; la vicinanza di una natura nuova e insieme superba; la solitudine dei luoghi e il silenzio; lo spazio antico e amico, aperto alla riflessione e al ricordo tutto mi ha spinto, quasi per incanto, a riprendere la scrittura e mi ha suggerito, con forza e immediatezza, i temi e i modi del canto» (p. 65).
Nascono così, in un rapporto privilegiato e fruttuoso con il paesaggio, le cinquantuno poesie di questa raccolta, «Lontano dalla città; partecipe dello spettacolo offerto da un accogliente e incantato anfiteatro verde e con lo sguardo rivolto al mare, disteso e immobile, laggiù, all’orizzonte» (p. 65).
Dall’ambiente sgorga l’ispirazione e si delinea il carattere specifico di queste liriche che dall’asprezza e dalla precaria friabilità della Pietra marcia traggono la riflessione su problematiche esistenziali e dalla contemplazione dell’infinito orizzonte tra mare e cielo la tensione verso riposte metafisiche.
Le liriche partono di solito dall’osservazione, o meglio dalla presa di coscienza di un qualcosa di vicino, per procedere con un ampliamento o piuttosto un approfondimento della riflessione. Il poeta torna indietro con il pensiero, ripercorre la sua vita, si interroga su se stesso (Buen retiro) e sul suo essere poeta ( [Michele, amico, tu], Fare poesia) recupera persone (Dea) e personaggi del suo passato e ne fa dei protagonisti (Lettera, Lo sguardo dalla Costa), osserva la vitalità misteriosa della natura (Hic et nunc) e ne evidenzia il fascino (Anfiteatro verde), si sofferma su aspetti lieti, ascrive valenze universali a momenti privilegiati della quotidianità (Rifugio) e osserva il mare con attrazione e timore (Il mare, Mareggiata). Tutto questo, con il suo personalissimo stile letterario, con il suo efficace tono poetico, fatto di leggerezza e di fermezza, di raffinata sobrietà, che si arricchisce nel contrappunto di alcuni echi di cultura poetica e si amplia nel gioco sapiente degli enjembement, si specifica nella ricercatezza lessicale, pur con qualche condiscendenza al colloquiale, sottolineato dalla facilità di certe rime.
In definitiva Camere appare poeta più delle domande che delle risposte, poeta degli interrogativi e dei dubbi esistenziali, pur nell’accettazione serena della vita, anche se soffusa di malinconia, soprattutto perché confortata dalla natura e dalla poesia, unite insieme nell’abbraccio dei boschi delle alture della costa ligure e del mare.
Anfiteatro verde
Un ciliegio silvestre, sospeso
con la zazzera sullo scrìmolo del fossato,
si copre di piccoli frutti aspri,
irraggiungibili, mentre il grande noce,
inclinato a rivedere il sole,
lento matura drupe. Gioielli
opachi e duri, non impossibili
per i denti acuti dello scoiattolo.
A lato del pino imbastardito,
roso dall’intignatura, la buffa
chioma a ombrello rovesciato,
si alzano acacie dispettose,
tra bianchi profumi a grappolo.
Più oltre la quercia, diritta sul piede
e astata, spande un’acconciatura
di fronde, come una grande sfera.
Mi faranno compagnia, anfiteatro
verde, fino a stasera. Quando
la luce dello spettacolo si perde.
Il mare
Davanti a me palpebra
appena, indefinito.
Ritto nel mezzo della passeggiata,
ormai smarrito e strambo, immagino
che tutto finisca all’orizzonte,
oltre la linea che divide
l’acqua dal cielo.
E là
Solo un orrido strapiombo.
Una barca a vela, infatti,
laggiù pencola e trema,
in pericolo di precipitare.
Corro, con lo sguardo,
da un capo all’altro
del confine azzurro.
Dalla punta del Mesco
fino ai lidi del ponente.
Per avere, a caso, una conferma.
È una sensazione oscura,
deliquescente. Mi aggrappo
alla panchina di marmo,
i piedi saldi sulla terra ferma.
(Anche se, prima d’essere
inghiottito, c’è ancora da aspettare.)
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