domenica 12 luglio 2020

RECENSIONE


Franco Zangrilli
City University of New York, Baruch College


            Nel panorama letterario dei nostri tempi Rosa Elisa Giangoia è un personaggio di gran rilievo. Attraverso gli anni ha pubblicato testi teatrali, sillogi poetici, saggi di vari natura, e quattro romanzi. Tanti scrittori e scrittrici del nostro paese (Aldo Putignano, Max Gobbo, Francesca Bardi, ecc.), come la Giangoia, sono ignorati delle strategie delle potenti casi editrice che pubblicano scrittori di poco valore, del trash dei best seller, ma che portano incassi lucrosi. E sono le piccole case editrici che negli ultimi decenni pubblicano i grandi scrittori
            L’ultimo romanzo della Giangoia, Febe. Dal tempo all’eterno, è composto di diciannove capitoli. Narrato in terza persona, dispiega una prosa nitida, laconica, scorrevole, fitta di sprazzi poetici, e si avvale di un andamento con tagli disparati: saggistico, filosofico, storico, antropologico, fantastico, ecc. Si evolve linearmente, tranne qua e là dei flashbacks e dei flashfowards; svela la disinvolta maestria dei montaggi, degli spostamenti, dei colpi di scene, per non dire della tecnica del racconto nel racconto; è ambientato in vari luoghi di un mondo antico, in particolare a Corinto. Sembra un mosaico enciclopedico di svariate mitologie, soprattutto quelle del mondo greco, biblico, ebraico. Persino quando utilizza e mescola un fascio di miti, di leggende e di favole di culture eterogene, tutto vuol essere in linea con la poetica della riscrittura che è l’anima della letteratura postmoderna. Paradossalmente si tratta di una riscrittura che, compiendo una rottura con la tradizione, ricupera la tradizione, la rinfresca, la rivitalizza, la rinnova, e presenta al lettore storie mitiche dandogli l’impressione che le legga per la prima volta.
            La penna della scrittrice ha una virtù particolare nel ricamare una trama imbevuta di metafore, di allegorie e di simboli destinati a enfatizzare come l’uomo si comporta nel seno storico, come egli cambi solo se vive in funzione di una speranza, di un ideale, di un mito religioso o cristiano o pagano o di altra fede. Nel tessuto narrativo l’eterno mito evangelico di Gesù è incarnato in vari personaggi, ma soprattutto nell’icona della protagonista Febe.
            Con Febe la scrittrice restituisce l’incarnazione di un Gesù che parla all’uomo postmoderno, di una creatura eroica tutta dedicata al prossimo, quasi annullando se stessa, di una figura leggendaria simili a  Mohandas Karamchand Gandhi ed a Santa Teresa di Calcutta. Donna ricca e potente, Febe è una santa matrice di miracoli, tutta portata a darsi con l’animo altruistico, a vivere aiutando i poveri e i malati. E quando l’autrice descrive come ella trasforma la sua grande casa in sorta di ospizio per i senza tetto e per gli infermi, sembra che stia riscrivendo la rappresentazione manzoniana di Fra’ Cristoforo nel Lazzaretto. La vena fantastica, che serpeggia in una serie di episodi e incluso quello delle statue che si animano, si fa dominante sia con la rappresentazione di Febe trasformata in una sorta di medium che dialoga con gli spiriti dell’aldilà, con gli dèi dell’Olimpo e con quelli dell’Infero, sia con l’affabulazione degli dèi che si trasfigurano in umani e gli umani che si trasformano in dèi; invece Demetra è al contempo divina e umana. Nella diegesi queste ed altre metamorfosi mostrano la tempra ovidiana, gotica, kafkiana. E si suggerisce che nessuna metamorfosi riesce a soddisfare l’animo inquieto di Febe: “il mondo degli dèi a cui si era accostata le era sembrato ristretto, meschino, egoista, mentre sentiva di aver bisogno di qualcosa di più… Il mondo terreno, ma neppure quello divino, su cui si era affacciata, non le bastava per trovare il conforto e le certezze di cui il suo cuore aveva bisogno” (36). Le sue inquietudini nascono dai ripiegamenti sulla felicità, sulla morte, sull’eterno; dai ricordi del marito defunto e dalla misteriosa scomparsa del figlio; dalle sue fantasticherie “senza fine” (39); dalle sue riflessione sui problemi della donna, resa dall’autrice una voce neofemminista anche quando parla del femminicidio, dell’infanticidio, dell’aborto.
            Tuttavia Febe è sollevata quando in un tempio ode un sermone di Paolo, un ebreo apostolo e messaggero della dottrina di Cristo che, secondo lui, è la “verità” assoluta e la “strada della salvezza” (78); al contempo è un difensore della religione dei suoi avi; narra la storia di come è stato illuminato da Gesù e, come ritiene un drappello di scrittori cattolici contemporanei (Rodolfo Doni, Lugi Santucci, Mario Pomilio, ecc.), ben conosciuti dalla Giangoia, anche per lui la fede è un grande “dono”, la sposa e la vive in tutti i sensi. Febe è tanto ammaliata da questo evento dando la sensazione che abbia incontrato Gesù in carne ed ossa. Parimenti a Poalo, anche Febe lotta con dinamico intento di far conquistare a tutti l’amore di Dio e la vita eterna. E grazie al dono della fede, tutte le sue incertezze si traducono in certezze, nella sicurezza della vita nell’aldilà, e nella speranza di riunirsi al figlio nell’aldiquà o nell’aldilà, speranza che infine riporta magicamente a ritrovarsi con lui a Corinto. Talvolta una sua amica cerca di risvegliarla dal suo modo di essere: “Corinna guardò la sua amica con un’espressione di compassione ed esclamò: «Mi sembri una bambina che crede alla favole!»” (66). Ciononostante Fede è profondamente arroccato sul suo credo in Dio. In molti aspetti Febe e Paolo sono facce della stessa medaglia, entrambi si rivelano paladini impegnati a lottare contro il male, a seminare ed a coltivare i messaggi della comprensione e compassione, della bontà e della fratellanza, insomma dei valori alti della Sacra Scrittura.
            In svariati episodi il romanzo enfatizza, pur con moduli allegorici, le nozioni misteriose del nascere, del vivere, e del morire, insomma il mito eterno del nostro vivere che richiama quello della Fenice; le idee etiche necessarie agli uomini per cambiare lo stile di vita e quindi per salvarsi: “abbiate buone parole per quelli che vi perseguitano. Non rendete a nessuno male per male. Impegnatevi sempre a fare il bene. Vivete in pace con tutti. Non fate le vostre vendette. State sottomessi alle autorità superiori. Amatevi gli uni gli altri” (130). Lo scioglimento della fabula inizia con Febe che, armata di questi e di altri suoi principi, illuminati pure da una epistola di Paolo, si mette in viaggio per andare a Roma, dove non fa altro che divulgarli e dove scopre un ambiente  di una città fantasmatica.
            Con  Febe. Dal tempo all’eterno la Giangoia ci ha regalato uno dei romanzi non solo più fini nell’arricchire la scrittura postmoderna ma anche più avvincenti e più belli degli ultimi tempi.

Rosa Elisa Giangoia, Febe. Dal tempo all’eterno, Roma, Europa Edizioni, 2019, pp. 197, € 15,00.




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