giovedì 11 marzo 2021

RECENSIONE

         

                        Franco Zangrilli*        

    Rosa Elisa Giangoia è una scrittrice di rilievo nella letteratura dei nostri tempi. Attraverso gli anni ha pubblicato testi teatrali, sillogi di poesia, saggi di varia natura, romanzi (In compagnia del pensiero, 1994; Fiori di seta, 1998; Il miraggio di Paganini, 2005; Febe, 2018), e testi di gastronomia (A convito con Dante, 2006, Magna Roma, 2007; Sapori danteschi, 2019).
Ricette nel tempo è indubbiamente uno dei libri più affascianti sugli infiniti aspetti e caratteri della cucina. E rivela una studiosa che ha una vasta conoscenza riguardo alla realtà letteraria che concerne la gastronomia del mondo occidentale.
   Il testo mette in medias res illustrando che l’uomo ha sempre avuto uno stretto rapporto con il cibo, che in epoche e in tempi diversi ha coltivato particolari preferenze verso nuovi cibi e nuovi sapori e gusti, si è creato fresche ricette anche per fare la dieta, preparandole con nuove tecniche e con un’infinità di ingredienti, spezie, aromi, condimenti, salse, ecc., a cui si aggiunge una ricca varietà di vini. Di capitolo in capitolo emerge l’idea che, durante la sua esistenza terrena, l’uomo non può vivere senza mangiare e bere. Per ogni civiltà il cibo ha una valenza culturale, sociale, economica, e per molti individui diventa un fatto di abitudine oltre che di necessità, un condizionamento ossessivo, psicologico, fisiologico.
   Ricette nel tempo rappresenta con acribia come si evolvano la storia e l’arte del cibo dall’antica Grecia a tempi moderni; come ogni secolo, come ogni luogo, si crea una propria cucina, grazie anche ai cuochi che si sbizzarriscono a creare nuove ricette; come il cibo viene visto in modi diversi dalle popolazioni del nostro pianeta e come esse con tecniche e metodi diversi lo coltivano e lo cucinano. Nel corso della storia è generalmente stato condiviso il detto proverbiale che “si è quello che si mangia”, già presente negli scritti del medico-filosofo greco Ippocrate, e viene a nutrire la filosofia del modo di essere di parecchi individui e d’intere società.
   Una delle originalità del testo della Giangoia si individua nel fatto che esso incorpora in tutti i capitoli una serie di ricette, di brani, di commenti, di idee, di interpretazioni, ecc. che escono dalla penna non solo dei cuochi che scrivono ricettari ma anche dalla penna di illustri poeti, scrittori, filosofi. Allora si nota che per la studiosa i ricettari della cucina non solo rappresentano un “genere letterario”, sempre molto ricco e vivo dai Greci ai tempi attuali, ma sono anche tasselli importanti che collaborano a sviluppare la piccola-grande storia: “la stesura di ricette e la loro raccolta è antica quanto la produzione letteraria e può essere di grande interesse ed aiuto per una conoscenza più dettagliata del passato, riguardo a usi e abitudini, ma anche per la testimonianza di prodotti oggi scomparsi e magari possibili da recuperare” (7). E si sottolinea che le ricette di testi antichi vengono “composte da cuochi per altri cuochi, mentre le moderne, da chiunque compilate, sono indirizzate ad un pubblico generico la cui competenza tecnica non può darsi per scontata” (7).
   La studiosa si sofferma a lungo a disquisire come molti letterari con la loro penna creativa trattano il mondo della tavola, come il cibo si consuma, dal pane al pesce, come danno attenzione alle vivande, e persino alla coltivazione e alla conservazione del vino. Ella dà amplia attenzioni ai letterati romani che si occupano anche dell’aspetto sociale, morale ed educativo della sfera cibaria, da Orazio a Cicerone, da Virgilio a “Plauto e Terenzio [che] forniscono numerose descrizione di cibi e, Plauto in particolare rappresenta con umorismo gli abusi grossolani a tavola nelle sue commedie e in scene diversi cuochi con gustosa ironia” (13-14). Nelle pagini di questi letterati trapela la predilezione descrittiva di piatti e pietanze, inclusa quella per la carne suina, e persino di ricette dello stampo dietetico, tese ad apparecchiare una tavola salutare.
    Secondo Giangoia, nel Medioevo si affacciano nuovi modi di consumare il cibo, specie e con la presenza degli eremiti che vivono in isolamento nei boschi o con le pratiche dei monasteri dove si predilige il pane, il vino, l’olio, gli ortaggi, ecc. Si sottolinea che nel Medioevo le carni cominciano ad essere usate in funzione alla salute, a cucinarle in questo senso; che si usano prodotti che aiutano anche la medicina, dalle erbe alle piante; che la maggior parte dei ricettari sono stesi in latino, e ci sono persino trattati sull’argomento stesi da Anonimi. In molti aspetti il Rinascimento arricchisce la letteratura cibaria con l’impegno di importanti scrittori, come per esempio indica il poema Baldus, del 1517, di Teofilo Folengo, “che ha per protagonista l’anonimo eroe popolano capo di una banda di furfanti con i quali depreda i paesi del Mantovano” (47), per non dire dei lavori di Francesco Berni e di Agnolo Firenzuola.
   A questo tipo di letteratura rinascimentale contribuisce in modo significativo l’immagine di Leonardo Da Vinci nell’inventare oggetti per la cucina: l’affettatrice, il macinapepe, il tritacarne, ecc., nel disegnare e nel descrivere dei piatti, e nello stendere un testo di ricette, il Codex Romanoff. Giangoia restituisce un ritratto biografico intrigante di Leonardo e della sua passione per l’arte culinaria: “la cucina fu sempre il suo divertimento preferito con un forte interesse per l’alimentazione che si inserisce nella sua più generale visione dell’uomo, fondata sull’idea che alimentarsi sia indispensabile per la vita” (51). Secondo Giangoia, il suo amore per la cucina nasce durante il periodo infantile, proprio quando sua madre sposa un pasticciere. Il patrigno gli diventa un maestro e gli insegna persino a preparare i dolci, di cui Leonardo è stato sempre ghiotto. Non solo il giovane Leonardo fa il cameriere in una taverna, ma subito ne diviene il capocuoco: “questa fu l’occasione per lui di cercare di dare un tocco di originalità e raffinatezza ai piatti” (52).
L’analisi della studiosa si rivela sagace e penetrante anche quando tratta, di capitolo in capitolo, la realtà gastronomia e la sua valenza letteraria del Seicento, del Settecento, dell’Ottocento, del Novecento. Insomma, con le Ricette nel tempo ella ci regala una meravigliosa enciclopedia gastronomica.

Rosa Elisa GIANGOIA, Ricette nel tempo. I ricettari di cucina come genere letterario, Genova, De Ferrari Editore, 2020, pp. 164, € 16,00.

*Docente di Letteratura Italiana e di Letteratura Comparata alla Baruch University di New YorK

Questa recensione è stata pubblicata nel sito della rivista spagnola ZIBALDONE  

http://www.zibaldone.es/index.php/resenas/item/268-rosa-elisa-giangoia-ricette-nel-tempo

RECENSIONE

 


Rosa Elisa Giangoia



Voler scrivere, l’ultimo libro di Maria Luisa Bressani, rivela tutta la passione per la scrittura a cui l’autrice si è dedicata con forte tensione emotiva e intellettuale per tutta la vita, come testimoniano le sue molte pubblicazioni di scrittrice e di giornalista. Ma qui, in questa scelta di suoi testi, scritti in tempi lontani e mai pubblicati, c’è uno scoprirsi, un rivelarsi nel suo rapporto con la scrittura. Scrivere è stato per lei una scelta, in contrapposizione all’insegnamento, una scelta impegnativa per le difficoltà del mondo giornalistico ed editoriale, ma anche per l’occuparsi della casa e della famiglia da parte di una donna “cresciuta in un recinto «scuola, famiglia, lavoro da casa»” e quindi testimone e protagonista, come tutte quelle della nostra generazione, del passaggio generalizzato dai limiti della famiglia all’apertura al mondo del lavoro, nel caso con la particolarità specifica del lavoro intellettuale a cui la nostra formazione scolastica e universitaria ci aveva preparate e destinate.
Quello che viene fuori da queste pagine è il ritratto di una donna colta e sensibile, capace di analizzarsi e giudicarsi anche per quanto riguarda il suo comportamento familiare e sociale, di osservare con occhio e spirito critico il mondo che la circonda, di prendere posizioni di pensiero e di ideali e di saperli comunicare con determinazione, ma nello stesso tempo con un garbo che rende il suo dire più efficace e convincente.
Gli argomenti che vengono trattati, sempre con una scrittura colta, precisa ed elegante, capace di stabilire un buon patto con il lettore, sono molto vari, vanno da rievocazioni degli anni dell’infanzia, dell’adolescenza e della giovinezza (Radici), a divertenti affreschi della vita familiare con acuti tratteggi dei suoi rapporti con i figlia (Famiglia), a narrazioni di fantasia (Due leggende e una favola), a riflessioni sullo scrivere e in particolare sulla sua esperienza personale (Parole e Voler scrivere) fino a pagine più strettamente letterarie su autori e artisti contemporanei e del mondo classico (Autori moderni e I Padri).
Quello che viene fuori è un libro composito, attraente per la varietà degli argomenti che vengono trattati, nella chiave particolare dell’auto rivisitazione da parte dell’autrice tra le due date del quarantennio 1980-2020, il che dà al lettore la percezione del cambiamento avvenuto in questi decenni a livello generale, ma anche l’evoluzione del pensiero, nel nodo tra il piano intellettuale e quello emotivo, dell’autrice.
Indubbiamente, una lettura molto piacevole, attraente e capace di arricchire l’orizzonte mentale di chi si avventura tra le sue pagine.

MARIA LUISA BRESSANI, Voler scrivere, Genova, Stefano Termanini Editore, 2020, pp. 295, € 15,00.

 

martedì 23 febbraio 2021

DUE POESIE



di FRANCO ZANGRILLI











Una volta c’era

Una volta c’era un Altro,
veniva considerato:
da bambino un pazzo
da giovane un drogato
da maturo un criminale.
Un suo amico diceva
che nessuno conosceva un Altro,
covava tante amarezze
e in segreto scriveva versi;
che, poco dopo il suo gesto estremo,
trovò una sua silloge in una bancarella;
che era andato in paradiso
e guardava l’aiuola feroce
dove le bestie sbranavano
la propria specie.




sboccia quel bacio

sboccia quel bacio
desideroso del ricordo
come una dolcezza amarezza

… e poi ti rivedo
su una nuvola
viaggiatrice
verso il nulla

i ricordi giacciono
in me come se fossero
incisi in una pietra
né sorda né muta





mercoledì 17 febbraio 2021

 


ESTINZIONE O TRASFORMAZIONE?

 Rosa Elisa Giangoia



La nuova silloge poetica di Lucetta Frisa Cronache di estinzioni dà già nel titolo la chiave interpretativa del testo e rivela l’atteggiamento dell’autrice verso la vita e il mondo in cui ci troviamo. Tutto ciò che fenomenologicamente ci circonda, che appare ai nostri occhi, l’ambiente in cui viviamo e con cui interagiamo è sulla strada di un’implacabile dissoluzione. E la poetessa guarda a questo mondo da un’alta posizione di ampio orizzonte, per coglierlo in tutte le complessità, ma anche e soprattutto nei piccoli segni rivelatori della dissoluzione che solo la sensibilità di un animo da poeta può saper cogliere ed esprimere, facendosi profeta.
L’orizzonte è immenso, assoluto in senso diacronico e sincronico, in una percezione in cui il prima, l’ora e il dopo stanno insieme in un equilibrio troppo labile per persistere senza rivelare, a chi ha la sensibilità per coglierle, le anche minime, impercettibili avvisaglie del crollo incombente, destinato a far precipitare tutto nell’annientamento totale.
Emblematica si pone, in apertura della silloge, l’accorata e affettuosa lirica per la madre (Per mia madre), come taglio netto con il passato, quello di «mille estati fa», fuggito in una nebbia d’indeterminatezza che rende la donna «ora, incerta, molto incerta», ma nei cui confronti la figlia recupera una realtà e un’intesa gratificante, rappresentata dalla possibilità di sorriderle («mi sorridi»), per cui non può immaginarla annientata nel nulla.
Ma a imporsi è, nelle liriche successive, la dimensione universale della vita: l’esperienza del reale (Crolli) si ingigantisce, si moltiplica e sfaccetta in una pluralità di eventi, che determinano un sovvertimento dell’ordine della vita, dei rapporti degli uomini tra di loro e tra gli uomini e gli animali (Natura morta).
Metonimia di questo dissolversi insito nell’ordine delle cose è l’Antartide, 1 («Basta lo scioglirsi/ di un qualcosa che subito si scioglie piano piano/ tutto il resto trascinato da questo alzarsi delle maree/ da questa energia segreta») che ha, però, un certo qual recupero positivo in Atlantide, 2 con l’idea che la vita si pietrifichi nel freddo del ghiaccio lasciando memorie da scoprire nel perdurare del tempo.
Le poesie hanno toni e andamenti diversi, talvolta il testo è narrativo, nell’ampiezza e nella calma, talaltra, più rapido e spezzato, ma è sempre un narrare, senza narrare, perché da narrare non c’è nulla, c’è solo da avere l’attenzione dell’osservazione per percepire le avvisaglie del precipitare nell’«estinzione». Per questo le liriche si orientano verso un prevalere dell’irreale, un irreale che subdolo si insinua nel reale, lo sgretola, lo mette in crisi, con quegli espedienti che noi, nella realtà, conosciamo solo nell’esperienza onirica (Un sogno). In questo modo il reale appare senza una sua intima consistenza, in un intreccio misterioso di vita e di morte, che finiscono per compenetrarsi e confondersi (Mitobiografia). È un impercettibile, ma costantemente reale, perdersi, per cui l’atteggiamento della poetessa non può che essere rinunciatario: «Lascio andare. Mi lascio andare. […]/ Io sulla sabbia scivolo verso il mare» (Etna). Questo anche perché tutto quello che accade intorno a noi avviene indipendentemente da noi, nella nostra inconsapevolezza e incomprensione: «Se della vita non c’è riparo/ forse la saggezza è non cercare nulla?» (London Valour).
Tutto sembra apparentemente normale, ma sono i piccoli episodi del reale a diventare indizi di quell’imperfezione capace di far precipitare tutto nel baratro dell’«estinzione». La primavera sembra preannunciare il risveglio della natura, invece non è così: si verificano «mutamenti/ incontrollabili» (Alienazione) che fanno precipitare nell’orrore. Ma da una lirica all’altra, quasi per lenta metamorfosi interna alla poesia stessa, il percorso d’«estinzione» sembra sempre più determinarsi per colpevoli comportamenti dell’uomo per cui «La terra lentamente si ricopriva di gusci di conchiglia/ soffocando ogni intenzione di vita: il suolo duro e arido/ la stringeva in una morsa letale.» (Plastica). Nello stesso tempo tutto si enfatizza nell’esagerazione, il cucinare e il mangiare, l’andare troppo in giro, soffocando la bellezza dell’arte e del paesaggio, il rimuovere forsennatamente la vecchiaia e l’individuale decadenza, fino a soffocare l’«ARIA» (Qui dove noi siamo) ed essere soffocati dagli oggetti frutto di una tendenza compulsiva agli acquisti.
Ma forse non tutto andrà perduto, molto cambierà, ma ci adatteremo, grazie all’«insensibile adattabilità umana» (Eremocene).
Lucetta Frisa ci prospetta l’evoluzione catastrofica che potrebbe verificarsi, ma che presuppone (o spera) non si verificherà. Lo spettro della fine aleggia, ma rimane una qualche possibilità di resistenza, affidata anche alla forza dirompente della parola poetica capace di recuperare e riproporre bellezza, in grado di prospettare barlumi di futura salvezza a cui affidarsi.
Tutto questo suo pensare sulla vita e sul mondo la poetessa lo dice con parole leggere, piene di grazia, talvolta con pacato argomentare, talaltra con frizzante creatività, venata di un umorismo e di un’ironia sottile che produce poesie accattivanti e coinvolgenti.


LUCETTA FRISA, Cronache di estinzioni, Pasturana (AL), puntoacapo, 2020, pp. 68, € 12,00

sabato 13 febbraio 2021

RECENSIONE

 


Rosa Elisa Giangoia



Primo Levi ha avuto la ventura di un grande successo con il suo primo romanzo Se questo è un uomo (1947) che l’ha collocato al di sopra di tutti gli altri autori di testi memorialistici sull’esperienza dei campi di concentramento nazisti (Giuliana Fiorentino Tedeschi, Alba Valech Capozzi, Frida Misul, Luciana Nissim Momigliano e Liana Millu). Per questo si afferma nel canone scolastico del nostro paese, ma la notorietà del primo libro e del successivo La tregua (1962) lo confina nell’ambito della memorialistica della shoah, limitando il suo riconoscimento come scrittore di ampia facoltà fantastica e creativa, come attesta la sua vasta produzione di racconti.
Per questo è molto interessante e importante il recente saggio critico Spazi neofantastici. Racconti di Primo Levi di Franco Zangrilli che, partendo dalla più ampia ottica del suo osservatorio newyorkese e alla luce della sua solida conoscenza e consuetudine critica con molti tra i maggiori autori italiani novecenteschi (D’Annunzio, Pirandello, Pavese, Landolfi, Sciascia, Bonaviri, Buzzati, Fallaci, Tabucchi, Campailla e tanti altri), analizza la produzione narrativa di Primo Levi per recuperare la sua originalità creativa e mettere in evidenza l’importanza della sua produzione nel panorama letterario italiano del secondo Novecento.
Attraverso un lavoro critico rigoroso, portato avanti con una lettura attenta e puntuale che scandaglia in profondità i testi di Levi, Zangrilli fa emergere un ritratto dello scrittore dai contorni molto più ampi e sfaccettati di quelli della memorialistica, in particolare di un autore capace di leggere il passato e il presente della sua esperienza, trasfigurandolo in modi fantasiosamente significativi, attraverso i quali può esercitare la sua critica e la sua lungimiranza profetica sulle cadute e sulle negatività della condizione umana.
Zangrilli, come enuncia nella Premessa del saggio, si propone di «esaminare i racconti leviani, di valutarne l’enorme geografia neofantastica, di mostrarne come formano l’opera più intricata, riuscita, e maggiore dell’autore, e come lo collocano nel clima dell’avanguardia e del postmodernismo». Partendo da questi intenti l’analisi si snoda in una serie di capitoli in cui i racconti vengono presi in considerazione per affinità tematiche. Il primo è L’orrore della guerra in cui viene messo in luce il fatto che la realtà storica, in particolare quella attraversata dall’autore, diventi spunto per diversi racconti, ma Levi vada oltre la descrizione e la rievocazione, facendo diventare il reale una metafora finalizzata a rappresentare i fatti al di là della fenomenologia storica, quali emblemi della negatività della guerra, della cattiveria umana da cui l’uomo non riesce ad uscire per salvarsi, oltre che dell’impossibilità di mettere ordine nel mondo e dei rischi insiti nella scienza che può diventare, nelle mani dell’uomo, strumento di offesa e di distruzione.
Grande spazio ha nei racconti di Levi la tematica fantascientifica, accuratamente analizzata da Zangrilli nel capitolo Il naturale è innaturale. Lo studioso evidenzia come in questo ambito Levi abbia saputo assumere una particolare connotazione personale, in quanto non rappresenta un futuro migliore per nuove scoperte e acquisizioni, ma piuttosto un mondo contrassegnato dalla negatività di catastrofi, tanto da poter essere considerato un antesignano dell’ecologia, capace di prospettare una nuova etica ambientale.
Ma molti racconti di Levi, come mette in evidenza Zangrilli con le sue acute analisi nel terzo capitolo (I misteri dell’amore), sono incentrati sulle dinamiche psicologiche e comportamentali del sentimento amoroso, sempre misteriosamente inspiegabile, ma determinante in molti casi e in tante occasioni della vita. Per quanto riguarda le capacità di sondare l’individuo da parte di Levi, l’analisi di Zangrilli prosegue nel capitolo successivo (Le crisi identitarie) in cui, attraverso un procedimento metaletterario, sulla base della sua ampia e profonda conoscenza della produzione di molte aree linguistiche, focalizza l’interesse sulla problematica individualità dello scrittore, mettendo in rilievo le spesso difficili dinamiche creative. Zangrilli fa poi emergere la centralità del personaggio nei racconti di Levi nel quinto capitolo (Le tipologie del personaggio). Sono quasi sempre personaggi caratterizzati da comportamenti che contrastano o esulano dalla condotta considerata normale, in quanto si caratterizzano per aspetti alogici ed irrazionali che sovente portano ad avventure surreali in situazione fantastiche. In questi casi più forte si fa il carattere metaforico delle narrazioni di Levi che, infrangendo il muro del naturalismo e venando il suo racconto di ambiguità, ma anche di umorismo, vuole andare oltre il semplice raccontare per evidenziare il carattere enigmatico, molto frequente nella quotidianità dei comportamenti umani.
A caratterizzare Levi come scrittore postmoderno è in modo rilevante il riutilizzo da parte sua di miti, leggende e storie della tradizione classica, medievale e moderna che vengono rielaborati con innovazioni fantasiose in un gioco combinatorio in cui si intrecciano generi letterari diversi. Questo aspetto è particolarmente evidente nei racconti ambientati nel regno animale, analizzati da Zangrilli nell’ultimo capitolo (Le voci strane dello zoo) in cui gli animali diventano figure fortemente significative, capaci di rappresentare gli oscuri aspetti animaleschi dell’uomo, e nello stesso tempo di esprimere la voce critica dell’uomo, indagando e mettendo in evidenza l’impossibilità di sondare fino in fondo i risvolti dell’animo. A questa prospettiva dà maggior vigore la capacità di Levi di creare animali immaginari, spesso risultato di ibridi tra l’uomo e la bestia, funzionali a meglio rappresentare, allontanandosi dalle tipologie della tradizione, gli intenti critici e morali dell’autore.
Levi, però, amplia il suo retroterra d’ispirazione, in quanto prende spunto anche dalle sue esperienze di chimico che lo portano a osservare la natura e a considerare l'impatto della scienza e della tecnica sulla quotidianità, dando vita a originali situazioni narrative. Questo anche per il fatto che la sua concezione della chimica è vitalistica e metamorfica. Si presenta, infatti, come una scienza della manipolazione della materia, in un divenire continuo in cui la materia resiste all'uomo in una lotta senza fine, come l'uomo ha saputo resistere, nonostante tutto, alla manipolazione operata dai nazisti nel campo di concentramento. In questo modo si saldano i due capisaldi della narrativa di Levi.
Dall’analisi che Zangrilli conduce sulla produzione narrativa di Levi viene fuori uno scrittore capace di osservare la realtà con quella razionalità che gli deriva anche dalla sua formazione scientifica, la quale lo porta a indagare sempre pur sapendo che prima o poi ci si troverà di fronte a quell’insondabile che determina la perenne inquietudine dell’uomo.
Zangrilli si sofferma anche sul lessico di Levi che appare sostenuto da una forte capacità di originale invenzione lessicale derivante dal poter attingere a termini scientifici, soprattutto dell’area chimica inerente alla sua formazione culturale e alla sua attività professionale, ma anche a neologismi e a tutta la trazione del vocabolario del meraviglioso.

FRANCO ZANGRILLI, Spazi neofantastici. Racconti di Primo Levi, Pesaro, Metauro Edizioni, 2020, pp. 293, € 22,00.

domenica 15 novembre 2020

L'ANGELO SEMINATORE

 Una lettura che colpisce

Angelo e Samuele

sempre in noi e con noi

Esternazioni e considerazioni

personali e senza pretese

a cura di Benito Poggio

Autori: Isa Morando & Vito Ugo L’Episcopo

Titolo: L’Angelo seminatore

dedicato ad Angelo Marchese.

Illustrazioni: Disegni di Nanni Perazzo.

Editore: Città del silenzio, Genova



*Sparse riflessioni a carattere generale

La presente lettura – non so se portata avanti da “lettore molto compiacente / – o

forse, ancora più, molto paziente” (p. 47) – l’ho percorsa come ininterrotto colloquio

d’anime e, lo devo ammettere con sincerità, mi ha colpito duro, senza mai attenuare

una certa qual forma di invadenza in me: nella mia mente e nel mio cuore.

Sì, l’importante opera-a-due è un lavoro di impegno sodo e solidale che mi ha

colpito nel profondo perché il prezioso ordito in poesia e in prosa dei due autori, Isa

Morando e Vito Ugo L’Episcopo, sia pure con diversa mano creativa e con differente

empito lirico, ha saputo con forza e senza infingimenti coagularsi approfonditamente,

esprimendole per di più “in veritate mentis ac etiam in veritate cordis”, attorno a

narrazioni e conversazioni, divagazioni e temi lirici tutti connotati da lente e meditate

estrinsecazioni e improvvise e subitanee epifanie.

In senso lato l’intesa espositiva e il modus cogitandi – dischiusi non solo in poesia e

in prosa, ma anche in realtà e in immaginazione – dei due poeti si diffondono, a mio

avviso, alla volta di territori poietici (vale a significare nell’ambito di una creatività

onnicomprensiva), densi di novità e nel contempo sorprendenti.

E tutto ciò proprio grazie al loro pensiero – sempre e ovunque – intriso di forza e di

convinzione: a dire un pensiero forte nell’emanazione dei loro vivi e vitali mondi

interiori connessi sempre all’esistente di ieri e di oggi, e che mai, e per nessuna

ragione, si fa e decade relativisticamente a pensiero debole.

Le due voci, pur nella dissimiglianza lirico-espressiva e nell’alternanza di tonalità

nelle prose, dedicano in piena concordia al collega e maestro Angelo Marchese e

cantano all’unisono foscolianamente (Dei sepolcri, v. 32-33) “l’amico estinto / e

l’estinto con noi” (p. 88) in un lancinante ricordo nel vigesimo (2000-2020) della sua

scomparsa in quella catulliana “nox … perpetua una dormienda” (Carme V), detta dal

rinomato latinista (colombino e normalista) Franco Caviglia (1940-2016) “una notte

soltanto da dormire, infinita” (Catullo, Poesie, Laterza).

Già “al confine sconosciuto” (p. 97), identificato nell’amletica “undiscover’d

country / from whose bourn no traveller returns”, Angelo Marchese qui appare come

«L’angelo seminatore», nel “dopo / che ci aspetta in silenzio, senza fine” (p. 39) e,

idealmente accomunandosi, comprende anche il tragico richiamo ai sogni infranti

suggeriti in «Il ponte di Samuele», un bambino di otto anni che sul “ponte di

cristallo” sta “correndo tra i bagliori della luce” (p. 104). come lo indica, ispirato, il

poeta Giuseppe Conte.

Entrambe le voci si esprimono verso chi è stato apprezzato e benvoluto senza

prevaricazione dell’una sull’altra, cariche e concentrate come sono in emozioni forti e

inquietudini divaricate.

A mio sentire, nel suo complesso e nella sua complessità, l’ampio potenziale liricoespressivo

si rivela sensibile ma non sentimentale nel cerchio delle poesie e delle

prose che fanno capo alla Morando; disincantato ma pregnante nel campo dei testi di

L’Episcopo, vigorosamente martellati con insolita veemenza in poesia e in prosa,

preceduti dall’amichevole e affettuosa introduzione (che richiamerò anche più oltre)

della stessa Morando, cui segue una scelta di composizioni da sei-sillogi-sei: pure, in

entrambi, tale potenziale lirico-espressivo si attiva e incanta da dentro, mai

dall’esterno o dall’alto.

...La liricità, in senso proprio, domina gli animi dei due autori ché nei loro versi si

dicono e spiccano fatti e verità onnicomprensive, non mai per metafora ma “come

ditta dentro” nella loro evidente e determinata corporeità e nel loro effettivo e

tangibile attaccamento alla vita.

Come filo conduttore al centro focale dell’opera, così io reputo, stagliano (rifiuto

sempre il “si” ch’io ritengo superfluo ed errato) Angelo, “il messaggero seminatore”

e Samuele, “il suo nome è Dio”: due figure vive e reali, fattesi immaginifiche

nell’oltrevita, ma che hanno vissuto entrambe tra noi e con noi: due figure oggi

apparentemente labili e pur persistenti nella loro esistenza conclusasi solo sulla terra,

non nel cuore e nell’anima di Anna, non nei cuori e nelle anime di noi tutti.

In apparente distanza giacché in realtà fra loro v’è vicinanza e complicità d’intenti,

i due autori, uniti da un r/esistente filo in/visibile e im/materiale, si lasciano andare e

coinvolgere in un intenso e prolungato colloquio di poesie, e anche di prose, che si fa

incessante e continuo, pertinente e commosso “duologo” attraverso il quale scorrono,

strettamente e intensamente, fiumi di versi nitidi, di espressioni icastiche, di pensieri

eloquenti, di concetti efficaci.

E poesie e prose fra loro correlate finiscono per fare di quest’opera – e non paia

iperbolica o enfatica esagerazione – una sorta di rinnovata, e oserei dire aggiornata,

«Vita nova» consegnata al nostro tempo come rivisitazione delle vicende di Angelo e

di Simone, disseminata di versi, pensieri, riflessioni, commenti connessi a entrambi.

...Se quella dantesca, come tutt’uno, contava su un unico autore, qui confluiscono e si

alternano, ma non si contrappongono, due identità e due autori nei loro specifici

mondi: Isa Morando (pp. 17-109) e Vito Ugo L’Episcopo (pp. 111-168).

Suddivise in due campi ispirate liriche e prose distintamente composte dai due

autori, inanellate e assemblate in un unum concettuale, si susseguono in tempi di

preciso riordino, appunto in fasi di pertinente ed esegetico commento da esse

scaturito e ad esse collegato.

...Nelle liriche dell’una e dell’altro si dà costantemente ragione della vita nei suoi più

felici momenti e più fecondi incontri conoscitivi e di lunga durata, nei suoi più

disparati contorni e nei suoi plurimi accadimenti; ma si vuol dare altresì ragione di

cause e princìpi, di significati e contenuti: il tutto, per la Morando, attraverso una

fervida alternanza di poesie e prose; per L’Episcopo, prevalentemente in dettami di

versi ossessionati nella loro cadenza e in due testi in prosa di una qualche crudezza:

entrambi gli autori evidenziano elevata maturazione interiore e appassionata

ricchezza del dire e del sentire.

Il libro in questione chiarisce un procedimento, a volte semplice e immediato, ma

che risulta armonico e ben congegnato nel suo vivo tessuto articolato, pur se a vari

livelli di lettura esegetica e di decodifica interpretativa: più tenuta alle forme

classiche del passato e del presente nella Morando, che rievoca e spazia dall’arte, alla

letteratura, alla filosofia, al teatro, al cinema et al.; più evoluta e involuta, come

“l’ombra che di ciò che fu e sarà” (p. 164) in considerazioni art-oniriche di presa di

coscienza, di giustificata contestazione e di, così mi pare, contenuta disperazione in

L’Episcopo.

Certamente costruzione e decostruzione dell’opera si basano su un’elaborazione

tanto meditata, interiorizzata e partecipata quanto insolitamente disincantata, rapita e

trasognata, ma senza dubbio sono inizialmente raccordate, quasi in un duetto di

timbro e tenore musicali, dalla fervente ouverture “Per Isa. Dalla vita semplice” (p.

15) che L’Episcopo dedica alla Morando, ove l’incipit proclama e sanziona “Poesia è

chi siamo” e l’explicit attesta alla dedicataria lo specifico, perentorio e acriptico status

che non ammette replica: “Isa è Poeta”; differente il sapore dell’ouverture “Ecco mio

padre… l’ultimo a destra della prima fila…” (p. 115) che la Morando elabora in

dedica a L’Episcopo: serba chiaramente, e lo si è detto più sopra, un tono piano e

rievocativo e, grazie anche alla storica e originale “foto dei tredici ragazzi” (p. 116)

quasi diciottenni, ferma il tempo, come suggerisce la Morando, “per poterlo fissare

per sempre in un’immagine” (ib.), prima che, trasformate in vittime sacrali,

l’imminente, mostruoso e violento moloch della guerra li fagociti e se ne appropri

senza alcuna pietà.

*Sporadici rilievi ed episodiche postille all’interno dell’opera

*Ci tengo a puntualizzare che mi accosto alla duplice partizione morandiana di «A

margine. Frammenti di scrittura (2019)» con la riguardosa decenza da critico alquanto

dimesso qual sono (nullo se raffrontato con l’amico e maestro Angelo) e perciò

conscio della personale pochezza e dei propri limiti nel pronunciarsi sugli altrui

lavori.

Qui la raccolta si snoda in sedici composizioni cinte, e quasi accerchiate, da un

pensoso corredo di prose dallo stile puro, pacato e piacevole, fattesi commenti o

conversazioni, resoconti o descrizioni, o infine assumendo andamento e tonalità di

amicali lettere indirizzate ad Angelo, tese a svelare e divulgare il sapore di una

poetica innervata a spontanei richiami di vita, di intensa e prolungata amicizia con lui

e a naturali estesi rimandi culturali, frutto, sì, di frequentazioni di colleganza e

d’amicizia ad ampio raggio con persona cui “tanto nomine nullum par elogium”, ma

anche di acquisizioni personali e interiorizzate nel campo professionale della docenza

(“la mitica terza E 1972-73”, pp. 108-9) e di costanti approfondimenti su autori

protagonisti non solo del suo mai dimenticato mondo classico, ma anche del mondo

passato più recente, del mondo moderno e del mondo contemporaneo in lei

connaturati.

Non poteva non essere – tratto dal Libro V/170 di quella insondabile miniera che è

l’“Antologia Palatina” – che con Nòsside di Locri l’avvio del raffinato e frastagliato

cammino, poetessa quella – si tramanda – “autrice di canti lirici densi di erotismo” e

per la quale, nelle parole del filologo classico e grecista Guido Paduano, “Niente è

più dolce di amore”.

Anche se a primo intuito non pare, il salto da Nòsside all’amico e poeta Giuseppe

Conte, anch’egli, come nel film di J. Losey, considerato “Messaggero d’amore” (p.

21), così come ai successivi incontri con i tanti personaggi della cultura e dell’arte qui

ricordati, è davvero logico e concettualmente molto breve.

E tra i numerosi amati autori qui citati – troppo numerosi davvero per elencarli tutti

– perché incontrati, studiati e amati non poteva mancare Dante: il Dante particolare

dell’Inferno, quello che “rovinava in basso loco” (p. 55) come capita nei sogni a Isa

Morando.

*Il mio personale e inatteso impatto con gli agili e fluidi versi che martellano in «Dei

solchi e dei passi (antologia del fiume Bisagno)» e marcano e rimarcano “il pianto

senza tempo / Dell’essere qui adesso” (p. 122) e le due prose “Sintassi del morire #2”

(che m’è parsa la trama di “Psycho” riletta al contrario) e “Sintassi del morire #3” (p.

158-159) di Vito Ugo L’Episcopo, già “carissimo ex alunno del Colombo e di Angelo

Marchese” (p. 86), mi hanno in parte sorpreso col loro “suono di ghiaccio” (p. 127).

E l’indelebile scia del suo Maestro si può sommariamente percepire in alcuni dei

risoluti e incisivi versi di L’Episcopo “come l’onda / lasciamo una tenue / risacca di

noi” (p. 129) in cui, mi sembra, è stimolato a inseguire quelli di Marchese “sconfitti,

rassegnati, / alla risacca della vita” (p. 171).

Ma in L’Episcopo incontriamo anche un inatteso e vivo “sole pittore d’ombre” (p.

130), mentre in lui anti-dannunzianamente non è la pioggia che cade sui ecc. ecc., ma

è “il tempo [che] corre / sulle…/ sulla…/ sui…/ sul…” (p. 134); e poi

capronianamente una salsedinosa “Genova” (p. 135) che “respira da lontano” (ib.),

non da Castelletto, ma “Dal Biscione” (ib.) che stende “a braccio sulla città / un

manto morbido e scuro” (ib.) e dove con sirenica melodia “le vele sorseggiano

l’acqua salata” (p. 167).

E su tutto, quasi “sogno non-sogno” (p.140), “ritorna il suono muto del silenzio” (p.

139) che “è un canto disperato” (ib.), e con disperazione chiude il poeta: “non saprò

mai / la fine della storia” (p. 168).

*A questo punto è il caso di ricordare che “finis coronat opus” con l’ultimo canto

«Resisti»: un titolo che per Angelo Marchese, qui poeta vero come il suo Montale et

al., altro non è apparentemente che “frusta parola” (p. 171), ma nel breve commento

introduttivo è correttamente e con nobile intuizione definito “sublime eredità morale

per noi tutti” (ib.).

E, se pure il critico-poeta abbia composto questo lungo canto e meditato recitativo

quasi mezzo secolo fa, si deve ammettere ch’esso conserva alla nostra odierna lettura

tutta la penetrante e acuta profondità concettuale di cui lui, “l’Angelo seminatore”,

era capace.

L’ha indirizzato all’uomo, cioè a tutti e a ciascuno di noi, invocandoci “o

compagno di strada” (ib.) e all’uomo, a tutti e a ciascuno di noi l’invito “resisti” è

ripetuto insistentemente, e per ben dodici volte: una volta a chiusura della prima

sezione, ben dieci volte nella seconda sezione e una volta, ma con una particolare vis

riepilogativa, come chiusa a puntello dell’intero testo.

… L’ho sempre letta questa composizione-messaggio come vera e propria “enciclica

laica” per gli inviti comportamentali virtuosi e per le innegabili verità di evangelico

sapore che espone oltre che per la validità in sé che supera il tempo e si situa al di

sopra dei tempi.

Basti, tra tutti, il messaggio permanente da “l’Angelo seminatore” gridato con

inusuale foga nel verso “C’è la fame, la guerra, l’ingiustizia nel mondo” (p. 173) per

avallare l’intero contenuto e sancire con lui, l’autore Angelo Marchese, quella validità

che supera qualsiasi analisi e dà ostinata e persistente efficacia al suo non effimero

“resisti” (pp. 1711,17210, 1741).

*Pregevoli, suggestivi e delicati i disegni di Nanni Perazzo che come sempre

affiancano e da sempre accompagnano i lavori dell’autrice “lungo il sentiero” (p. 16)

del suo impegno a tutto tondo, dando concretezza non solo ai suoi versi e arricchendo

indubbiamente la leggibilità dei suoi testi.

E nel porre la parola fine a questa mia personale lettura, m’è ritornato alla mente

quanto lessi una volta in una lettera alla sua Giulia (i.e. Julia Schucht, 1923-1937)

dell’austero studioso Antonio Gramsci (1891-1937): “mi ripugna scrivere le solite

vacuità” (Lettere dal carcere, 144): ebbene mi auguro proprio di non esserci incorso

io in questo mio trattatello senza pretese o come delinea Aulo Gellio (Noctes Atticae,

VII, passim) “in questa mia questioncella (declamantiunculam) di duplice

interpretazione” su Isa Morando e Vito Ugo L’Episcopo.

Benito Poggio