martedì 23 febbraio 2021

DUE POESIE



di FRANCO ZANGRILLI











Una volta c’era

Una volta c’era un Altro,
veniva considerato:
da bambino un pazzo
da giovane un drogato
da maturo un criminale.
Un suo amico diceva
che nessuno conosceva un Altro,
covava tante amarezze
e in segreto scriveva versi;
che, poco dopo il suo gesto estremo,
trovò una sua silloge in una bancarella;
che era andato in paradiso
e guardava l’aiuola feroce
dove le bestie sbranavano
la propria specie.




sboccia quel bacio

sboccia quel bacio
desideroso del ricordo
come una dolcezza amarezza

… e poi ti rivedo
su una nuvola
viaggiatrice
verso il nulla

i ricordi giacciono
in me come se fossero
incisi in una pietra
né sorda né muta





mercoledì 17 febbraio 2021

 


ESTINZIONE O TRASFORMAZIONE?

 Rosa Elisa Giangoia



La nuova silloge poetica di Lucetta Frisa Cronache di estinzioni dà già nel titolo la chiave interpretativa del testo e rivela l’atteggiamento dell’autrice verso la vita e il mondo in cui ci troviamo. Tutto ciò che fenomenologicamente ci circonda, che appare ai nostri occhi, l’ambiente in cui viviamo e con cui interagiamo è sulla strada di un’implacabile dissoluzione. E la poetessa guarda a questo mondo da un’alta posizione di ampio orizzonte, per coglierlo in tutte le complessità, ma anche e soprattutto nei piccoli segni rivelatori della dissoluzione che solo la sensibilità di un animo da poeta può saper cogliere ed esprimere, facendosi profeta.
L’orizzonte è immenso, assoluto in senso diacronico e sincronico, in una percezione in cui il prima, l’ora e il dopo stanno insieme in un equilibrio troppo labile per persistere senza rivelare, a chi ha la sensibilità per coglierle, le anche minime, impercettibili avvisaglie del crollo incombente, destinato a far precipitare tutto nell’annientamento totale.
Emblematica si pone, in apertura della silloge, l’accorata e affettuosa lirica per la madre (Per mia madre), come taglio netto con il passato, quello di «mille estati fa», fuggito in una nebbia d’indeterminatezza che rende la donna «ora, incerta, molto incerta», ma nei cui confronti la figlia recupera una realtà e un’intesa gratificante, rappresentata dalla possibilità di sorriderle («mi sorridi»), per cui non può immaginarla annientata nel nulla.
Ma a imporsi è, nelle liriche successive, la dimensione universale della vita: l’esperienza del reale (Crolli) si ingigantisce, si moltiplica e sfaccetta in una pluralità di eventi, che determinano un sovvertimento dell’ordine della vita, dei rapporti degli uomini tra di loro e tra gli uomini e gli animali (Natura morta).
Metonimia di questo dissolversi insito nell’ordine delle cose è l’Antartide, 1 («Basta lo scioglirsi/ di un qualcosa che subito si scioglie piano piano/ tutto il resto trascinato da questo alzarsi delle maree/ da questa energia segreta») che ha, però, un certo qual recupero positivo in Atlantide, 2 con l’idea che la vita si pietrifichi nel freddo del ghiaccio lasciando memorie da scoprire nel perdurare del tempo.
Le poesie hanno toni e andamenti diversi, talvolta il testo è narrativo, nell’ampiezza e nella calma, talaltra, più rapido e spezzato, ma è sempre un narrare, senza narrare, perché da narrare non c’è nulla, c’è solo da avere l’attenzione dell’osservazione per percepire le avvisaglie del precipitare nell’«estinzione». Per questo le liriche si orientano verso un prevalere dell’irreale, un irreale che subdolo si insinua nel reale, lo sgretola, lo mette in crisi, con quegli espedienti che noi, nella realtà, conosciamo solo nell’esperienza onirica (Un sogno). In questo modo il reale appare senza una sua intima consistenza, in un intreccio misterioso di vita e di morte, che finiscono per compenetrarsi e confondersi (Mitobiografia). È un impercettibile, ma costantemente reale, perdersi, per cui l’atteggiamento della poetessa non può che essere rinunciatario: «Lascio andare. Mi lascio andare. […]/ Io sulla sabbia scivolo verso il mare» (Etna). Questo anche perché tutto quello che accade intorno a noi avviene indipendentemente da noi, nella nostra inconsapevolezza e incomprensione: «Se della vita non c’è riparo/ forse la saggezza è non cercare nulla?» (London Valour).
Tutto sembra apparentemente normale, ma sono i piccoli episodi del reale a diventare indizi di quell’imperfezione capace di far precipitare tutto nel baratro dell’«estinzione». La primavera sembra preannunciare il risveglio della natura, invece non è così: si verificano «mutamenti/ incontrollabili» (Alienazione) che fanno precipitare nell’orrore. Ma da una lirica all’altra, quasi per lenta metamorfosi interna alla poesia stessa, il percorso d’«estinzione» sembra sempre più determinarsi per colpevoli comportamenti dell’uomo per cui «La terra lentamente si ricopriva di gusci di conchiglia/ soffocando ogni intenzione di vita: il suolo duro e arido/ la stringeva in una morsa letale.» (Plastica). Nello stesso tempo tutto si enfatizza nell’esagerazione, il cucinare e il mangiare, l’andare troppo in giro, soffocando la bellezza dell’arte e del paesaggio, il rimuovere forsennatamente la vecchiaia e l’individuale decadenza, fino a soffocare l’«ARIA» (Qui dove noi siamo) ed essere soffocati dagli oggetti frutto di una tendenza compulsiva agli acquisti.
Ma forse non tutto andrà perduto, molto cambierà, ma ci adatteremo, grazie all’«insensibile adattabilità umana» (Eremocene).
Lucetta Frisa ci prospetta l’evoluzione catastrofica che potrebbe verificarsi, ma che presuppone (o spera) non si verificherà. Lo spettro della fine aleggia, ma rimane una qualche possibilità di resistenza, affidata anche alla forza dirompente della parola poetica capace di recuperare e riproporre bellezza, in grado di prospettare barlumi di futura salvezza a cui affidarsi.
Tutto questo suo pensare sulla vita e sul mondo la poetessa lo dice con parole leggere, piene di grazia, talvolta con pacato argomentare, talaltra con frizzante creatività, venata di un umorismo e di un’ironia sottile che produce poesie accattivanti e coinvolgenti.


LUCETTA FRISA, Cronache di estinzioni, Pasturana (AL), puntoacapo, 2020, pp. 68, € 12,00

sabato 13 febbraio 2021

RECENSIONE

 


Rosa Elisa Giangoia



Primo Levi ha avuto la ventura di un grande successo con il suo primo romanzo Se questo è un uomo (1947) che l’ha collocato al di sopra di tutti gli altri autori di testi memorialistici sull’esperienza dei campi di concentramento nazisti (Giuliana Fiorentino Tedeschi, Alba Valech Capozzi, Frida Misul, Luciana Nissim Momigliano e Liana Millu). Per questo si afferma nel canone scolastico del nostro paese, ma la notorietà del primo libro e del successivo La tregua (1962) lo confina nell’ambito della memorialistica della shoah, limitando il suo riconoscimento come scrittore di ampia facoltà fantastica e creativa, come attesta la sua vasta produzione di racconti.
Per questo è molto interessante e importante il recente saggio critico Spazi neofantastici. Racconti di Primo Levi di Franco Zangrilli che, partendo dalla più ampia ottica del suo osservatorio newyorkese e alla luce della sua solida conoscenza e consuetudine critica con molti tra i maggiori autori italiani novecenteschi (D’Annunzio, Pirandello, Pavese, Landolfi, Sciascia, Bonaviri, Buzzati, Fallaci, Tabucchi, Campailla e tanti altri), analizza la produzione narrativa di Primo Levi per recuperare la sua originalità creativa e mettere in evidenza l’importanza della sua produzione nel panorama letterario italiano del secondo Novecento.
Attraverso un lavoro critico rigoroso, portato avanti con una lettura attenta e puntuale che scandaglia in profondità i testi di Levi, Zangrilli fa emergere un ritratto dello scrittore dai contorni molto più ampi e sfaccettati di quelli della memorialistica, in particolare di un autore capace di leggere il passato e il presente della sua esperienza, trasfigurandolo in modi fantasiosamente significativi, attraverso i quali può esercitare la sua critica e la sua lungimiranza profetica sulle cadute e sulle negatività della condizione umana.
Zangrilli, come enuncia nella Premessa del saggio, si propone di «esaminare i racconti leviani, di valutarne l’enorme geografia neofantastica, di mostrarne come formano l’opera più intricata, riuscita, e maggiore dell’autore, e come lo collocano nel clima dell’avanguardia e del postmodernismo». Partendo da questi intenti l’analisi si snoda in una serie di capitoli in cui i racconti vengono presi in considerazione per affinità tematiche. Il primo è L’orrore della guerra in cui viene messo in luce il fatto che la realtà storica, in particolare quella attraversata dall’autore, diventi spunto per diversi racconti, ma Levi vada oltre la descrizione e la rievocazione, facendo diventare il reale una metafora finalizzata a rappresentare i fatti al di là della fenomenologia storica, quali emblemi della negatività della guerra, della cattiveria umana da cui l’uomo non riesce ad uscire per salvarsi, oltre che dell’impossibilità di mettere ordine nel mondo e dei rischi insiti nella scienza che può diventare, nelle mani dell’uomo, strumento di offesa e di distruzione.
Grande spazio ha nei racconti di Levi la tematica fantascientifica, accuratamente analizzata da Zangrilli nel capitolo Il naturale è innaturale. Lo studioso evidenzia come in questo ambito Levi abbia saputo assumere una particolare connotazione personale, in quanto non rappresenta un futuro migliore per nuove scoperte e acquisizioni, ma piuttosto un mondo contrassegnato dalla negatività di catastrofi, tanto da poter essere considerato un antesignano dell’ecologia, capace di prospettare una nuova etica ambientale.
Ma molti racconti di Levi, come mette in evidenza Zangrilli con le sue acute analisi nel terzo capitolo (I misteri dell’amore), sono incentrati sulle dinamiche psicologiche e comportamentali del sentimento amoroso, sempre misteriosamente inspiegabile, ma determinante in molti casi e in tante occasioni della vita. Per quanto riguarda le capacità di sondare l’individuo da parte di Levi, l’analisi di Zangrilli prosegue nel capitolo successivo (Le crisi identitarie) in cui, attraverso un procedimento metaletterario, sulla base della sua ampia e profonda conoscenza della produzione di molte aree linguistiche, focalizza l’interesse sulla problematica individualità dello scrittore, mettendo in rilievo le spesso difficili dinamiche creative. Zangrilli fa poi emergere la centralità del personaggio nei racconti di Levi nel quinto capitolo (Le tipologie del personaggio). Sono quasi sempre personaggi caratterizzati da comportamenti che contrastano o esulano dalla condotta considerata normale, in quanto si caratterizzano per aspetti alogici ed irrazionali che sovente portano ad avventure surreali in situazione fantastiche. In questi casi più forte si fa il carattere metaforico delle narrazioni di Levi che, infrangendo il muro del naturalismo e venando il suo racconto di ambiguità, ma anche di umorismo, vuole andare oltre il semplice raccontare per evidenziare il carattere enigmatico, molto frequente nella quotidianità dei comportamenti umani.
A caratterizzare Levi come scrittore postmoderno è in modo rilevante il riutilizzo da parte sua di miti, leggende e storie della tradizione classica, medievale e moderna che vengono rielaborati con innovazioni fantasiose in un gioco combinatorio in cui si intrecciano generi letterari diversi. Questo aspetto è particolarmente evidente nei racconti ambientati nel regno animale, analizzati da Zangrilli nell’ultimo capitolo (Le voci strane dello zoo) in cui gli animali diventano figure fortemente significative, capaci di rappresentare gli oscuri aspetti animaleschi dell’uomo, e nello stesso tempo di esprimere la voce critica dell’uomo, indagando e mettendo in evidenza l’impossibilità di sondare fino in fondo i risvolti dell’animo. A questa prospettiva dà maggior vigore la capacità di Levi di creare animali immaginari, spesso risultato di ibridi tra l’uomo e la bestia, funzionali a meglio rappresentare, allontanandosi dalle tipologie della tradizione, gli intenti critici e morali dell’autore.
Levi, però, amplia il suo retroterra d’ispirazione, in quanto prende spunto anche dalle sue esperienze di chimico che lo portano a osservare la natura e a considerare l'impatto della scienza e della tecnica sulla quotidianità, dando vita a originali situazioni narrative. Questo anche per il fatto che la sua concezione della chimica è vitalistica e metamorfica. Si presenta, infatti, come una scienza della manipolazione della materia, in un divenire continuo in cui la materia resiste all'uomo in una lotta senza fine, come l'uomo ha saputo resistere, nonostante tutto, alla manipolazione operata dai nazisti nel campo di concentramento. In questo modo si saldano i due capisaldi della narrativa di Levi.
Dall’analisi che Zangrilli conduce sulla produzione narrativa di Levi viene fuori uno scrittore capace di osservare la realtà con quella razionalità che gli deriva anche dalla sua formazione scientifica, la quale lo porta a indagare sempre pur sapendo che prima o poi ci si troverà di fronte a quell’insondabile che determina la perenne inquietudine dell’uomo.
Zangrilli si sofferma anche sul lessico di Levi che appare sostenuto da una forte capacità di originale invenzione lessicale derivante dal poter attingere a termini scientifici, soprattutto dell’area chimica inerente alla sua formazione culturale e alla sua attività professionale, ma anche a neologismi e a tutta la trazione del vocabolario del meraviglioso.

FRANCO ZANGRILLI, Spazi neofantastici. Racconti di Primo Levi, Pesaro, Metauro Edizioni, 2020, pp. 293, € 22,00.

domenica 15 novembre 2020

L'ANGELO SEMINATORE

 Una lettura che colpisce

Angelo e Samuele

sempre in noi e con noi

Esternazioni e considerazioni

personali e senza pretese

a cura di Benito Poggio

Autori: Isa Morando & Vito Ugo L’Episcopo

Titolo: L’Angelo seminatore

dedicato ad Angelo Marchese.

Illustrazioni: Disegni di Nanni Perazzo.

Editore: Città del silenzio, Genova



*Sparse riflessioni a carattere generale

La presente lettura – non so se portata avanti da “lettore molto compiacente / – o

forse, ancora più, molto paziente” (p. 47) – l’ho percorsa come ininterrotto colloquio

d’anime e, lo devo ammettere con sincerità, mi ha colpito duro, senza mai attenuare

una certa qual forma di invadenza in me: nella mia mente e nel mio cuore.

Sì, l’importante opera-a-due è un lavoro di impegno sodo e solidale che mi ha

colpito nel profondo perché il prezioso ordito in poesia e in prosa dei due autori, Isa

Morando e Vito Ugo L’Episcopo, sia pure con diversa mano creativa e con differente

empito lirico, ha saputo con forza e senza infingimenti coagularsi approfonditamente,

esprimendole per di più “in veritate mentis ac etiam in veritate cordis”, attorno a

narrazioni e conversazioni, divagazioni e temi lirici tutti connotati da lente e meditate

estrinsecazioni e improvvise e subitanee epifanie.

In senso lato l’intesa espositiva e il modus cogitandi – dischiusi non solo in poesia e

in prosa, ma anche in realtà e in immaginazione – dei due poeti si diffondono, a mio

avviso, alla volta di territori poietici (vale a significare nell’ambito di una creatività

onnicomprensiva), densi di novità e nel contempo sorprendenti.

E tutto ciò proprio grazie al loro pensiero – sempre e ovunque – intriso di forza e di

convinzione: a dire un pensiero forte nell’emanazione dei loro vivi e vitali mondi

interiori connessi sempre all’esistente di ieri e di oggi, e che mai, e per nessuna

ragione, si fa e decade relativisticamente a pensiero debole.

Le due voci, pur nella dissimiglianza lirico-espressiva e nell’alternanza di tonalità

nelle prose, dedicano in piena concordia al collega e maestro Angelo Marchese e

cantano all’unisono foscolianamente (Dei sepolcri, v. 32-33) “l’amico estinto / e

l’estinto con noi” (p. 88) in un lancinante ricordo nel vigesimo (2000-2020) della sua

scomparsa in quella catulliana “nox … perpetua una dormienda” (Carme V), detta dal

rinomato latinista (colombino e normalista) Franco Caviglia (1940-2016) “una notte

soltanto da dormire, infinita” (Catullo, Poesie, Laterza).

Già “al confine sconosciuto” (p. 97), identificato nell’amletica “undiscover’d

country / from whose bourn no traveller returns”, Angelo Marchese qui appare come

«L’angelo seminatore», nel “dopo / che ci aspetta in silenzio, senza fine” (p. 39) e,

idealmente accomunandosi, comprende anche il tragico richiamo ai sogni infranti

suggeriti in «Il ponte di Samuele», un bambino di otto anni che sul “ponte di

cristallo” sta “correndo tra i bagliori della luce” (p. 104). come lo indica, ispirato, il

poeta Giuseppe Conte.

Entrambe le voci si esprimono verso chi è stato apprezzato e benvoluto senza

prevaricazione dell’una sull’altra, cariche e concentrate come sono in emozioni forti e

inquietudini divaricate.

A mio sentire, nel suo complesso e nella sua complessità, l’ampio potenziale liricoespressivo

si rivela sensibile ma non sentimentale nel cerchio delle poesie e delle

prose che fanno capo alla Morando; disincantato ma pregnante nel campo dei testi di

L’Episcopo, vigorosamente martellati con insolita veemenza in poesia e in prosa,

preceduti dall’amichevole e affettuosa introduzione (che richiamerò anche più oltre)

della stessa Morando, cui segue una scelta di composizioni da sei-sillogi-sei: pure, in

entrambi, tale potenziale lirico-espressivo si attiva e incanta da dentro, mai

dall’esterno o dall’alto.

...La liricità, in senso proprio, domina gli animi dei due autori ché nei loro versi si

dicono e spiccano fatti e verità onnicomprensive, non mai per metafora ma “come

ditta dentro” nella loro evidente e determinata corporeità e nel loro effettivo e

tangibile attaccamento alla vita.

Come filo conduttore al centro focale dell’opera, così io reputo, stagliano (rifiuto

sempre il “si” ch’io ritengo superfluo ed errato) Angelo, “il messaggero seminatore”

e Samuele, “il suo nome è Dio”: due figure vive e reali, fattesi immaginifiche

nell’oltrevita, ma che hanno vissuto entrambe tra noi e con noi: due figure oggi

apparentemente labili e pur persistenti nella loro esistenza conclusasi solo sulla terra,

non nel cuore e nell’anima di Anna, non nei cuori e nelle anime di noi tutti.

In apparente distanza giacché in realtà fra loro v’è vicinanza e complicità d’intenti,

i due autori, uniti da un r/esistente filo in/visibile e im/materiale, si lasciano andare e

coinvolgere in un intenso e prolungato colloquio di poesie, e anche di prose, che si fa

incessante e continuo, pertinente e commosso “duologo” attraverso il quale scorrono,

strettamente e intensamente, fiumi di versi nitidi, di espressioni icastiche, di pensieri

eloquenti, di concetti efficaci.

E poesie e prose fra loro correlate finiscono per fare di quest’opera – e non paia

iperbolica o enfatica esagerazione – una sorta di rinnovata, e oserei dire aggiornata,

«Vita nova» consegnata al nostro tempo come rivisitazione delle vicende di Angelo e

di Simone, disseminata di versi, pensieri, riflessioni, commenti connessi a entrambi.

...Se quella dantesca, come tutt’uno, contava su un unico autore, qui confluiscono e si

alternano, ma non si contrappongono, due identità e due autori nei loro specifici

mondi: Isa Morando (pp. 17-109) e Vito Ugo L’Episcopo (pp. 111-168).

Suddivise in due campi ispirate liriche e prose distintamente composte dai due

autori, inanellate e assemblate in un unum concettuale, si susseguono in tempi di

preciso riordino, appunto in fasi di pertinente ed esegetico commento da esse

scaturito e ad esse collegato.

...Nelle liriche dell’una e dell’altro si dà costantemente ragione della vita nei suoi più

felici momenti e più fecondi incontri conoscitivi e di lunga durata, nei suoi più

disparati contorni e nei suoi plurimi accadimenti; ma si vuol dare altresì ragione di

cause e princìpi, di significati e contenuti: il tutto, per la Morando, attraverso una

fervida alternanza di poesie e prose; per L’Episcopo, prevalentemente in dettami di

versi ossessionati nella loro cadenza e in due testi in prosa di una qualche crudezza:

entrambi gli autori evidenziano elevata maturazione interiore e appassionata

ricchezza del dire e del sentire.

Il libro in questione chiarisce un procedimento, a volte semplice e immediato, ma

che risulta armonico e ben congegnato nel suo vivo tessuto articolato, pur se a vari

livelli di lettura esegetica e di decodifica interpretativa: più tenuta alle forme

classiche del passato e del presente nella Morando, che rievoca e spazia dall’arte, alla

letteratura, alla filosofia, al teatro, al cinema et al.; più evoluta e involuta, come

“l’ombra che di ciò che fu e sarà” (p. 164) in considerazioni art-oniriche di presa di

coscienza, di giustificata contestazione e di, così mi pare, contenuta disperazione in

L’Episcopo.

Certamente costruzione e decostruzione dell’opera si basano su un’elaborazione

tanto meditata, interiorizzata e partecipata quanto insolitamente disincantata, rapita e

trasognata, ma senza dubbio sono inizialmente raccordate, quasi in un duetto di

timbro e tenore musicali, dalla fervente ouverture “Per Isa. Dalla vita semplice” (p.

15) che L’Episcopo dedica alla Morando, ove l’incipit proclama e sanziona “Poesia è

chi siamo” e l’explicit attesta alla dedicataria lo specifico, perentorio e acriptico status

che non ammette replica: “Isa è Poeta”; differente il sapore dell’ouverture “Ecco mio

padre… l’ultimo a destra della prima fila…” (p. 115) che la Morando elabora in

dedica a L’Episcopo: serba chiaramente, e lo si è detto più sopra, un tono piano e

rievocativo e, grazie anche alla storica e originale “foto dei tredici ragazzi” (p. 116)

quasi diciottenni, ferma il tempo, come suggerisce la Morando, “per poterlo fissare

per sempre in un’immagine” (ib.), prima che, trasformate in vittime sacrali,

l’imminente, mostruoso e violento moloch della guerra li fagociti e se ne appropri

senza alcuna pietà.

*Sporadici rilievi ed episodiche postille all’interno dell’opera

*Ci tengo a puntualizzare che mi accosto alla duplice partizione morandiana di «A

margine. Frammenti di scrittura (2019)» con la riguardosa decenza da critico alquanto

dimesso qual sono (nullo se raffrontato con l’amico e maestro Angelo) e perciò

conscio della personale pochezza e dei propri limiti nel pronunciarsi sugli altrui

lavori.

Qui la raccolta si snoda in sedici composizioni cinte, e quasi accerchiate, da un

pensoso corredo di prose dallo stile puro, pacato e piacevole, fattesi commenti o

conversazioni, resoconti o descrizioni, o infine assumendo andamento e tonalità di

amicali lettere indirizzate ad Angelo, tese a svelare e divulgare il sapore di una

poetica innervata a spontanei richiami di vita, di intensa e prolungata amicizia con lui

e a naturali estesi rimandi culturali, frutto, sì, di frequentazioni di colleganza e

d’amicizia ad ampio raggio con persona cui “tanto nomine nullum par elogium”, ma

anche di acquisizioni personali e interiorizzate nel campo professionale della docenza

(“la mitica terza E 1972-73”, pp. 108-9) e di costanti approfondimenti su autori

protagonisti non solo del suo mai dimenticato mondo classico, ma anche del mondo

passato più recente, del mondo moderno e del mondo contemporaneo in lei

connaturati.

Non poteva non essere – tratto dal Libro V/170 di quella insondabile miniera che è

l’“Antologia Palatina” – che con Nòsside di Locri l’avvio del raffinato e frastagliato

cammino, poetessa quella – si tramanda – “autrice di canti lirici densi di erotismo” e

per la quale, nelle parole del filologo classico e grecista Guido Paduano, “Niente è

più dolce di amore”.

Anche se a primo intuito non pare, il salto da Nòsside all’amico e poeta Giuseppe

Conte, anch’egli, come nel film di J. Losey, considerato “Messaggero d’amore” (p.

21), così come ai successivi incontri con i tanti personaggi della cultura e dell’arte qui

ricordati, è davvero logico e concettualmente molto breve.

E tra i numerosi amati autori qui citati – troppo numerosi davvero per elencarli tutti

– perché incontrati, studiati e amati non poteva mancare Dante: il Dante particolare

dell’Inferno, quello che “rovinava in basso loco” (p. 55) come capita nei sogni a Isa

Morando.

*Il mio personale e inatteso impatto con gli agili e fluidi versi che martellano in «Dei

solchi e dei passi (antologia del fiume Bisagno)» e marcano e rimarcano “il pianto

senza tempo / Dell’essere qui adesso” (p. 122) e le due prose “Sintassi del morire #2”

(che m’è parsa la trama di “Psycho” riletta al contrario) e “Sintassi del morire #3” (p.

158-159) di Vito Ugo L’Episcopo, già “carissimo ex alunno del Colombo e di Angelo

Marchese” (p. 86), mi hanno in parte sorpreso col loro “suono di ghiaccio” (p. 127).

E l’indelebile scia del suo Maestro si può sommariamente percepire in alcuni dei

risoluti e incisivi versi di L’Episcopo “come l’onda / lasciamo una tenue / risacca di

noi” (p. 129) in cui, mi sembra, è stimolato a inseguire quelli di Marchese “sconfitti,

rassegnati, / alla risacca della vita” (p. 171).

Ma in L’Episcopo incontriamo anche un inatteso e vivo “sole pittore d’ombre” (p.

130), mentre in lui anti-dannunzianamente non è la pioggia che cade sui ecc. ecc., ma

è “il tempo [che] corre / sulle…/ sulla…/ sui…/ sul…” (p. 134); e poi

capronianamente una salsedinosa “Genova” (p. 135) che “respira da lontano” (ib.),

non da Castelletto, ma “Dal Biscione” (ib.) che stende “a braccio sulla città / un

manto morbido e scuro” (ib.) e dove con sirenica melodia “le vele sorseggiano

l’acqua salata” (p. 167).

E su tutto, quasi “sogno non-sogno” (p.140), “ritorna il suono muto del silenzio” (p.

139) che “è un canto disperato” (ib.), e con disperazione chiude il poeta: “non saprò

mai / la fine della storia” (p. 168).

*A questo punto è il caso di ricordare che “finis coronat opus” con l’ultimo canto

«Resisti»: un titolo che per Angelo Marchese, qui poeta vero come il suo Montale et

al., altro non è apparentemente che “frusta parola” (p. 171), ma nel breve commento

introduttivo è correttamente e con nobile intuizione definito “sublime eredità morale

per noi tutti” (ib.).

E, se pure il critico-poeta abbia composto questo lungo canto e meditato recitativo

quasi mezzo secolo fa, si deve ammettere ch’esso conserva alla nostra odierna lettura

tutta la penetrante e acuta profondità concettuale di cui lui, “l’Angelo seminatore”,

era capace.

L’ha indirizzato all’uomo, cioè a tutti e a ciascuno di noi, invocandoci “o

compagno di strada” (ib.) e all’uomo, a tutti e a ciascuno di noi l’invito “resisti” è

ripetuto insistentemente, e per ben dodici volte: una volta a chiusura della prima

sezione, ben dieci volte nella seconda sezione e una volta, ma con una particolare vis

riepilogativa, come chiusa a puntello dell’intero testo.

… L’ho sempre letta questa composizione-messaggio come vera e propria “enciclica

laica” per gli inviti comportamentali virtuosi e per le innegabili verità di evangelico

sapore che espone oltre che per la validità in sé che supera il tempo e si situa al di

sopra dei tempi.

Basti, tra tutti, il messaggio permanente da “l’Angelo seminatore” gridato con

inusuale foga nel verso “C’è la fame, la guerra, l’ingiustizia nel mondo” (p. 173) per

avallare l’intero contenuto e sancire con lui, l’autore Angelo Marchese, quella validità

che supera qualsiasi analisi e dà ostinata e persistente efficacia al suo non effimero

“resisti” (pp. 1711,17210, 1741).

*Pregevoli, suggestivi e delicati i disegni di Nanni Perazzo che come sempre

affiancano e da sempre accompagnano i lavori dell’autrice “lungo il sentiero” (p. 16)

del suo impegno a tutto tondo, dando concretezza non solo ai suoi versi e arricchendo

indubbiamente la leggibilità dei suoi testi.

E nel porre la parola fine a questa mia personale lettura, m’è ritornato alla mente

quanto lessi una volta in una lettera alla sua Giulia (i.e. Julia Schucht, 1923-1937)

dell’austero studioso Antonio Gramsci (1891-1937): “mi ripugna scrivere le solite

vacuità” (Lettere dal carcere, 144): ebbene mi auguro proprio di non esserci incorso

io in questo mio trattatello senza pretese o come delinea Aulo Gellio (Noctes Atticae,

VII, passim) “in questa mia questioncella (declamantiunculam) di duplice

interpretazione” su Isa Morando e Vito Ugo L’Episcopo.

Benito Poggio

sabato 7 novembre 2020

DINA BELLRHAM


Lorenzo Spurio con la traduzione in italiano della raccolta di poesie Le iguane non mi turbano più ci fa conoscere una nuova, interessantissima poetessa, la ecuadoriana Dina Bellrham (1984-2011)

 

Per Le Mezzelane Editore di Santa Maria Nuova (AN) è uscito in questi giorni il libro Le iguane non mi turbano più, una ricca e commentata selezione di poesie di Dina Bellrham, tradotte dal poeta e critico letterario Lorenzo Spurio in italiano.

L’opera è il frutto di un lavoro di studio, analisi e traduzione dell’opera poetica della poetessa ecuadoriana Edelina Adriana Beltrán Ramos (1984-2011), meglio nota con lo pseudonimo di Dina Bellrham, studentessa al quinto anno di Medicina presso l’Università Statale di Guayaquil (Ecuador), con la passione per la poesia (era grande appassionata di Alejandra Pizarnik) che fece parte del gruppo poetico giovanile “Buseta de Papel”. Pubblicò due raccolte poetiche: Con Plexo de Culpa (2008) e La Mujer de Helio (2011). Grazie all’interessamento della famiglia, nella figura della madre Cecibel Ramos e del critico letterario Siomara España, postumi sono stati pubblicati i volumi Je suis malade (2012) e Inédita Bellrham (2013). Alcune sue poesie sono state tradotte in inglese e francese su riviste e blog di cultura mentre questo di Spurio rappresenta il primo libro organico, in una lingua diversa dallo spagnolo, prodotto su testi della giovane poetessa dello stato del Guayas.

Tale edizione è stata possibile grazie alla disponibilità e al consenso della famiglia, nella figura della madre, la signora Cecibel Ramos. A impreziosire il volume si trova un ampio studio critico preliminare a cura della poetessa e critico letterario Siomara España, tradotto in italiano dal curatore dal titolo Dina Bellrham: contemplazione e comparsa, nel quale si indagano con attenzione le caratteristiche preminenti della poetica della giovane poetessa.

Come si legge dalla quarta di copertina: «La poesia della Bellrham è sospesa tra un fosco presentimento della morte – quasi un dialogo continuo con l’oltretomba – e una tensione amorosa per la vita, la famiglia e la quotidianità dei giorni della quale, pure, non manca di mettere in luce idiosincrasie, violenze e ingiustizie diffuse. La critica ha parlato di una sorta di nuovo Barocco per la sua poesia dove coesistono terminologie specialistiche della Medicina e squarci visionari che fanno pensare al più puro surrealismo. Entrare in una poetica così magmatica e a tratti scivolosa per cercarne di dare una versione nella nostra lingua non è compito semplice, dal momento che la poetessa coniò – come il critico Siomara España annota nello studio preliminare – un suo codice linguistico particolarissimo, inedito, personale e multi-stratificato. Eppure è un tentativo sentito (e in qualche modo doveroso) frutto di quella “chiamata” insondabile che non si è potuto eludere».


Le iguane non mi turbano più


Le iguane non mi turbano più:

pensavo alla loro coda

e al mio collo

e alla morte.

Però una di esse mi sorrideva

-i gringo (117) sicuramente pensavano alla giunga-

(ma era solo un parco)-

E non seppi (118) [più] come inghiottire il pianto

e corsi

mentre l’iguana stava inviolata (119)

e il dolore, qui

nella metà del parco

quando l’iguana per [la] prima volta

non volle gettare [la] sua coda.

E corsi

e il dolore, qui

arse (120) tutto lo spazio del fumo

e il sorriso dell’iguana

però fa male (121)

questa fotografia dei gringo

e la loro biancheria istrionica…

Deve essere

questo, che arde

trucioli

in questa foto

e nel sorriso

deve essere

che ogni parte di me

quel giorno si perse

in quel parco.


117 Il termine gringo di acquisizione e uso anche nella nostra lingua, ha un

significato chiaro. In spagnolo esso può stare sia per “straniero” che per

gringo (secondo alcuni, una definizione dispregiativa), ovvero

anglofono in terra sudamericana.

118 Nella versione originale viene usato il presente (Ya no sé) ma dato che i

versi che seguono fanno riferimento a un qualcosa avvenuto nel passato

ho deciso di rendere anche tale forma verbale al passato.

119 Il termine originale, intacta, può far valere diverse accezioni nella nostra

lingua: “intatta” e “inviolata”; quest’ultima sia nel senso di

“indisturbata” che “non oltraggiata”.

120 Anche in questo caso il verbo nell’originale era al presente e si è deciso

di renderlo al passato.

121 L’originale recita duele (verbo doler) che può essere reso con “dolere”,

“far male”, “procurare male”, “far soffrire”.

Dina Bellrham, pseudonimo di Edelina Adriana Beltrán Ramos, nacque a Milagro, nella provincia di Guayas, nello stato dell’Ecuador il 6 luglio 1984 ed è morta suicida a Guayaquil il 27 ottobre del 2011. Studentessa al quinto anno di Medicina presso l’Università Statale di Guayaquil, con la passione per la poesia (grande appassionata di Alejandra Pizarnik), ha fatto parte del gruppo poetico giovanile “Buseta de Papel”. Due le raccolte poetiche pubblicate: Con Plexo de Culpa (2008) e La Mujer de Helio (2011); altri lavori sono stati pubblicati postumi. Grazie all’interessamento della famiglia, nella figura della madre Cecibel Ramos e del critico letterario Siomara España, postumi sono stati pubblicati i volumi Je suis malade (2012) e Inédita Bellrham (2013). Alcune sue poesie sono state tradotte in inglese e francese su riviste e blog di cultura.


Lorenzo Spurio (Jesi, 1985), poeta, scrittore e critico letterario. Per la poesia ha pubblicato Neoplasie civili (2014), La testa tra le mani (2016), Le acque depresse (2016), Tra gli aranci e la menta. Recitativo dell’assenza per Federico García Lorca (I ediz. 2016; II ediz. 2020) e Pareidolia (2018). Ha curato antologie poetiche tra cui Convivio in versi. Mappatura democratica della poesia marchigiana (2016, 2 voll.). Intensa la sua attività quale critico con la pubblicazione di saggi in rivista e volume, approfondimenti, prevalentemente sulla letteratura straniera, tra cui le monografie su Ian McEwan e il volume Cattivi dentro: dominazione, violenza e deviazione in alcune opere scelte della letteratura straniera (2018). Si è dedicato anche allo studio della poesia della sua regione pubblicando Scritti marchigiani (2017) e La nuova poesia marchigiana (2019). Tra i suoi principali interessi figura il poeta e drammaturgo spagnolo Federico García Lorca al quale ha dedicato un ampio saggio sulla sua opera teatrale, tutt’ora inedito e tiene incontri tematici. Ha tradotto dallo spagnolo racconti di César Vallejo e di Juan José Millás e una selezione di poesie di Dina Bellrham confluite in Le iguane non mi turbano più (2020). Su di lui si sono espressi, tra gli altri, Giorgio Bàrberi Squarotti, Dante Maffia, Corrado Calabrò, Ugo Piscopo, Nazario Pardini, Antonio Spagnuolo, Sandro Gros-Pietro, Guido Oldani, Mariella Bettarini, Emerico Giachery e numerosi altri.

 

 

mercoledì 14 ottobre 2020

POESIA

Proponiamo ai nostri lettori questa vibrante testimonianza di dedizione e di fedeltà alla scuola, alla cultura, e, in particolare, all'insegnamento della Letteratura da parte del prof. Renato Dellepiane che, con rammarico e malinconia, ma anche con la serenità per aver bene operato, guarda al suo lavoro di docente e di preside nel momento della conclusione.


Natale 2010  - 1 . 1. 2011          

All’approssimarsi delle feste, come d’abitudine, invio a tutti i miei auguri più sinceri. Quest’anno non posso non pensare, con un po’ di commozione, che sarà l’ultima volta che lo faccio.  Perciò mi sono permesso di “rovinare” una splendida poesia di Giorgio Caproni   presentandovi, a mo’ di saluto, questo Congedo, non del viaggiatore ma del preside cerimonioso, dettato unicamente da uno spirito natalizio di grande amicizia con tutti. Spero che questo sia il ricordo che conserveremo reciprocamente, avendo tutti lavorato per il bene dei ragazzi.


Amici, credo che sia

meglio per me cominciare

a portar via i miei libri.

Ormai arriva l’ora

della pensione, ed io so,

son certo, che pochi mesi

precedono il commiato.

Sicuri segni mi dicono,

da quanto mi è stato

comunicato dai capi, ch’io

vi dovrò presto lasciare.

Vogliatemi perdonare

quel po’ di disturbo recato

talvolta, in passato.

Con voi sono stato lieto

questi anni, e molto

vi sono grato, credetemi,

per l’ottima compagnia.

Ancora vorrei collaborare

a lungo con voi: ma sia.

Quale sarà la mia vita

lo ignoro. Sento

però che vi dovrò ricordare

dopo, senza più lavorare

mentre il mio occhio già vede,

col pensiero, nel tempo

che ancora rimane 

qui nel luogo di lavoro,

la mia nuova condizione.

Chiedo congedo a voi,

senza potermi nascondere,

lieve, una commozione.

Era così bello parlare

insieme, seduti di fronte,

in ufficio o in Collegio,

così bello confondere

le voci (parlare

scambiandoci pareri)

e tutto quel discutere

di scuola (quel programmare,

per meglio insegnare)

fino a proporre progetti,

che, per le ben note strette,

 mai avremmo potuto

 realizzare.

Scusate. Son tanti i libri

anche se non serviranno granché;

tanto ch’io mi domando perché

li porti via, e quale

aiuto mi potranno dare

poi, quando li avrò con me.

Ma pure li debbo portare,

non foss’ altro per seguire l’uso:

lasciatemi, vi prego, andare.

Ecco: ora che ho preso

già tanti libri, mi sento

quasi fuori: vogliate scusare.

Dicevo ch’era bello lavorare

insieme. Discutere.

Abbiamo avuto qualche diverbio,

 è naturale.

Ci siamo – ed è normale

anche questo - odiati

su più di un punto e frenati

solo per cortesia.

Ma, cos’importa. Sia

come sia, torno

a dirvi, e di cuore, grazie

per l’ottima compagnia.

Congedo a lei, professore

e alla sua profonda dottrina,

talora agli alunni peregrina.

Congedo a lei, signorina

un tempo, e al suo lieve rossore

sul volto, la cui tinta

mite è, credo, finta.

Congedo, o bidello

(o collaboratore) in scuola

ed in cortile un po’monello!

 

 A te, Vicaria, quasi sorella

 per tutti questi anni

dico ancora grazie!

E congedo: nelle mani

 tue sarà il King domani.

Congedo a voi, assistenti.

ricorderò i momenti insieme

e la vostra simpatia:

 mi mancherà, quando sarò via!

Congedo a lei, direttore,

che tiene i cordoni della borsa:

la prego, abbia buon cuore:

per le future spese

non mandi tutti “a quel paese”!

Congedo a voi tutti, professori:

di quanto avete dato

(pur poco avendo in cambio)

davvero vi son grato.

Congedo alla Provincia

e congedo alla Regione,

congedo all’Istruzione

pubblica.  Ormai son quasi andato.

Ora che più vicina sento

l’ora del saluto, vi lascio

davvero, colleghi. Addio.

Di questo son certo: io

son giunto alla disperazione

calma, senza sgomento

 

Forse mi ricorderete un poco:

pur criticandomi. Per gioco,

(o forse seriamente…

ma, credete: non fa niente)

a chi prenderà il mio posto,

mostrandosi più “tosto”,

pensando ai miei difetti

(son quelli degli inetti

non usi a comandare,

propensi a perdonare)

direte: “Oh, finalmente

È giunto un competente!”

Tranquilli: non ho risentimento.

Be’, vado. Buon proseguimento